Il pianino

Serie: IL TRENO DELLE ANIME


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: ​Manuel, dopo aver accompagnato Alex in ospedale, entra in una chiesa e riconosce nel prete che celebra la messa il vecchio pescatore. La sera, fa ritorno a casa, all'interno 8.

                                                                                             
«Come stai?»
«Ho mal di pancia, il dottore ha detto che ho l’appendicicche, stasera mi portano all’ospedale. Quelli che portano all’ospedale muoiono.»
«Non piangere, che non muori. Ma quante cicche hai mangiato che adesso sono appese?»
«Non lo so. So solo che muoio.»
«Non muori. Mio nonno dice che i gatti hanno 7 vite e io ho detto al mio gatto di dartene una… tanto lui ne ha altre 6.»
«Sì, ma poi divento un gatto.»
«Ma nooo, fidati… al massimo, invece che piangere, farai: miao, miao.»
«Mi prendi sempre in giro… poi il gatto non me la dà una vita.»
«E io gliele tolgo tutte e sette, se non fa quello che gli ho detto.»
«No, non devi fargli male, promettilo.»
«Va beneee. Però tu non muori: fidati.»
«Ma io mi fido di te… ma adesso voglio alzarmi, sono stufo di stare a letto.»
«No, devi stare a letto per guarire.»
«No, io mi alzo.»
«Fai il bravo. Se resti a letto, ti faccio un regalo: ho visto un bel giocattolo.»
«Cosa?»
«È una sorpresa.»
«Ma non hai soldi.»
«Sì, invece, ho i soldini che mi ha dato mio nonno.»

Il bambino uscì e poco dopo ritornò con una scatola quasi più grande di lui.

«Apri.»
«Uauuu, un pianinooo, grazieee. Come hai fatto a sapere che mi piaceva?»
«Per forza, sono tuo amico.»             

Poi entrarono due uomini: uno più giovane e l’altro più vecchio. 

Il più giovane prese il bambino malato in braccio per portarlo via, mentre l’altro, più vecchio, accostò a sé il bambino più grande. Il piccolo ammalato, prima di uscire, sfiorò con la mano il viso dell’amico che, a testa bassa, cercava di nascondere le lacrime.


​Manuel si era seduto sul pavimento e piangeva.
​«Ti ricordi le ultime parole che ti ho detto? ‘Che il Diavolo ti porti’…»
​Cominciò a ridere istericamente.
​«E invece il cornuto è passato da me per un patto. Io ho accettato e, quando volevo stringergli la mano, si è ritratto con disgusto. Faccio schifo pure al Diavolo. Ah, disse pure che un giorno sarebbe passato a riscuotere… forse è arrivato il momento.»
​Lasciò cadere la bottiglia e si addormentò sul pavimento. 
Passarono due giorni, ma i medici non riuscivano ancora a fare una diagnosi. Manuel firmò per il rilascio del figlio, deciso a provare anche all’estero per una cura.
​Una volta a casa, preparò una cena leggera, mise tutto su un vassoio e lo portò nella camera di Alex. Il figlio era seduto in mezzo al letto con lo sguardo perso nel vuoto.
​Il padre cercava di invogliarlo a mangiare.
​«Alex, forza, mangiamo qualcosa.»
​«Papà, non ho fame… non ce la faccio.»
​Manuel rise e abbassò lo sguardo.
​«Dai, fai uno sforzo… vuoi che ti imbocchi?»
​«Hai ragione… domani non posso permettermi di non avere forze…»
​«Perché non puoi permetterti di non avere forze domani?»
​«Cosa, papà? Io non ho detto niente.»
​«Sì… forse ho capito male. Alex, ti dispiace se stanotte dormo qui con te? Sai, non mi va di dormire da solo… così possiamo anche parlare un po’.»
​«Te lo stavo chiedendo io, papà… ti prego… resta.»
​Manuel rimase nella camera del ragazzo anche per vedere cosa sarebbe successo durante la notte.
Era quasi l’alba, fingeva di dormire e osservava il figlio che si era svegliato. Alex si alzò e iniziò a vestirsi come se dovesse uscire; chiuse la zip del giubbino e si coprì la testa e il viso con il cappuccio. Portò una sedia davanti all’armadio, ci salì sopra e dall’ultimo scaffale del mobile prese un vecchio plaid arrotolato, pieno di polvere. Lo fece cadere sul suo letto, scese dalla sedia e lo srotolò. Era come se cercasse qualcosa, ma nel plaid non c’era niente. Poi si avvicinò allo specchio, alzò il braccio, lo tese e con la mano indicò la sua immagine riflessa. Manuel era angosciato, piangeva sommessamente e non riusciva a capire che significato avessero quei gesti. Si alzò e si accostò ad Alex, guardò i suoi occhi, ma non li riconobbe. Come poteva un genitore accettare la pazzia del proprio figlio? Vedere un’espressione assente su un viso così giovane era terribile. Intanto, Alex si era rimesso a letto e, finalmente, fu vinto dal sonno. Il padre lo vegliava, ma infine, stremato, anche lui si assopì.
​Il sole era già alto sull’orizzonte quando Manuel si svegliò; fu un raggio di sole a destarlo, caldo e leggero, come una carezza che sfiorava il suo viso. Il primo pensiero fu quello di guardare Alex, che dormiva ancora, ma poco dopo si svegliò anche lui.
​«Buongiorno, giovanotto, come ti senti oggi?»
​Alex si guardò un attimo intorno, poi fissò il padre e rispose.
​«Confuso, papà… confuso… è come se avessi dei ricordi e delle sensazioni a metà.»
​«Cerca di spiegarmi.»
​«Adesso ho nella mente una musica che non ho mai sentito… come un suono di un carillon e non riesco a cacciarlo via.»
​«Ma questo succede a tutti; forse l’hai sentita da qualche parte; tu in quel momento eri distratto, ma la musica è passata come messaggio subliminale e adesso ti ritorna alla mente.»
​«No, no, non è così, sono sicuro di non averla mai sentita.»
​«Prova a canticchiarla.»
​«Non ne sono capace, papà.»
​Poi guardò la vecchia tastiera.
​«Provo a suonarla.»
​«Stai imparando a suonare? Perché non lo hai detto?»
​«Mi prendi sempre in giro? Forse non ricordi che mentre tu giocavi con le tartarughe ninja io già strimpellavo.»
​«Ma che stai dicendo?»
​Alex aveva sul viso un sorriso beffardo che non era il suo.
​Manuel guardò il figlio alzarsi, raggiungere la tastiera e accennare le prime note: un brivido lo scosse, chiuse gli occhi e ingoiò l’angoscia. Si affrettò a interromperlo.
​«Va bene, va bene, basta così… la conosco… è una musica di quasi quarant’anni fa. Non pensarci più… non si può sempre trovare una spiegazione a tutto, Alex.»
​«Sì, hai ragione, papà.»

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