25-Tobino
L’altro giorno ho ripreso il pullman dopo 4 anni. Ad un certo punto della giornata, non ricordo quando, mi sono resa conto di quanto fosse stato facile. Ho fatto a piedi il tratto che separa la fermata da casa mia, ho aspettato quei cinque minuti, sono salita e sono arrivata a destinazione in tutta tranquillità. Detta e raccontata così infatti sembra la cosa più semplice e banale del mondo, un dettaglio trascurabile di una giornata, “con cosa sei venuta? ah hai preso il pullman?” niente di che.
Eppure a me l’idea di prendere il pullman terrorizzava anima e corpo fino a qualche anno fa. Se mi avessero chiesto se preferivo buttarmi giù da un burrone o prendere il 25, io avrei sicuramente scelto la prima opzione. La mia non era finzione, non era un capriccio, la mia era paura al 100%, quella che ti blocca il respiro, che ti fa tremare le gambe e che non ti fa capire più niente. Mi ricordo che la mattina prima di andare a scuola era un travaglio: aspettavo invano il messaggio di mio padre che diceva che sarebbe passato a prendermi, e questo arrivava una volta si e dieci no, quando pioveva mi lasciava sempre a piedi.
Insomma, aspettavo questo messaggio che non arrivava mai, allora mi dirigevo verso la fermata col terrore negli occhi. La vera domanda giunti a questo punto è: perché avevo paura? Entravo a testa bassa, con la musica nelle orecchie, non avevo il coraggio di guardare in faccia nessuno, mi sedevo sempre vicino al conducente, a volte proprio accanto a lui, appiccicata a quel mezzo metro dove c’è la macchinetta per timbrare il biglietto. Dei miei coetanei non ho mai visto nessuno comportarsi come me sul pullman, innanzitutto avevano sempre dei gruppetti con cui salire, io sono sempre stata sola, e quando ho avuto compagnia ho ricevuto una botta sulla testa, offese gratuite e come sempre sono rimasta zitta. Covavo rancore, desideravo vendetta in silenzio, ma non facevo assolutamente niente. Ero inerme, silenziosa, cupa, sola, impaurita, smarrita, venivo chiama ‘inutile’ e non avevo il coraggio di controbattere. Forse, interiormente, io stessa mi sentivo inutile, e stavo al gioco. Ecco perché avevo paura. E invece nonostante tutto ero forte e non lo sapevo, perché tenevo tutto per me, lo costudivo come un segreto sporco di cui prima o poi sapevo che mi sarei sbarazzata, e così è stato.
Io non realizzo di aver vissuto un trauma finché in qualche modo non lo rivivo. Seduta sul pullman, andando a lavoro, sempre con la musica nelle orecchie, mi è venuto spontaneo alzare il viso e guardarmi intorno, e dentro di me ho proprio pensato ‘’com’è possibile che avessi così tanto paura di questo?’’. E allora come spesso mi capita quando penso a me stessa, mi è venuta voglia di darmi un abbraccio e di farmi una carezza. Vorrei poter viaggiare indietro nel tempo ed essere amica di me stessa, accompagnarmi alla fermata del bus, stringermi la mano e farmi forza, ripetere che quello è solo un piccolo ostacolo, niente di più, sembra un incubo infinito ma non lo è, passerà, come passeranno tante altre cose ancora più brutte. Allo stesso modo, vorrei che adesso arrivasse la me del futuro, la donna intraprendente che sto costruendo pezzo dopo pezzo, vorrei averla già davanti e vorrei che fosse lei questa volta ad abbracciarmi e a darmi una carezza. Vorrei che mi dicesse che andrà tutto bene e che la paura che provo adesso, molto più profonda e radicata di quella che avevo negli anni di scuola, se ne andrà via insieme a tutte le insicurezze che mi chiudono lo stomaco, che m’ingrigiscono il viso, scavando tratti che normalmente non ci sarebbero.
La paura del pullman la percepivo sul corpo, nelle gambe, nelle braccia, nella pancia, quella che provo ora la sento che entra dalla bocca e s’insidia fino allo stomaco, lì crea un vuoto che ha fame, cerca risposte, risposte che io adesso non sono in grado di dare. Certe cose cambiano, altre restano le stesse, si evolvono e basta. Io mi sento ancora sola, se mi concentro, non vedo nessuno intorno a me, solo le mie paure che mi divorano. Le carezze non c’erano e non ci sono, forse non arriveranno mai. Forse una volta me le dava mia mamma, ma ora non me le ricordo più, non so come siano fatte le sue mani, non so se sono ancora ruvide come una volta, consumate dai prodotti per le pulizie ma tanto rassicuranti da sembrare le più morbide del mondo. Non lo so e non lo voglio sapere, non voglio aver bisogno delle sue carezze. L’ultima volta che ne ho ricevuta una è stato uno sconosciuto a darmela, una notte d’estate, ed è stata talmente delicata da sembrare innocente, per questo me ne sono innamorata.
Avete messo Mi Piace3 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Un racconto che colpisce per via dell’intima dichiarazione fatta a se stessa dalla protagonista e che arriva dritta al lettore, nel senso che non si può fare a meno di ascoltarla. Aggiungo che hai scelto un titolo efficace, brevissimo, che non è cosa da poco quando poi, leggendo, si apre una immersione totale nella vita della protagonista, prima in piena paura, dopo con consapevole coraggio e determinazione. Tra le altre cose, a mio avviso, è anche un racconto che ci insegna qualcosa. Piaciuto.
grazie mille, lo apprezzo tanto.
Mi è piacituo lo stile di questo racconto, che parte quasi come se fosse un diario per rivelarsi una chiacchierata tra l’autrice e chi legge, una sorta di confessione molto matura e calma.
Ed oltre alla forma, ho apprezzato i contenuti, la capacità analitica di metabolizzare un vecchio trauma – o una fobia, forse – metabolizzarla e vincerla. Ho trovato molto dolce il passaggio in cui la “donna di adesso” vorrebbe poter vedere “la ragazza di allora” e rassicurarla. Probabilmente tutti dovremmo avere più affetto verso noi stessi.
grazie mille, sono d’accordo.