La mia bambolina

Serie: Autobiografia di un sensitivo sensibile


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Mi piacciono le belle bambole giovani.

Mi svegliai il giorno dopo con la bocca secca e l’anima in frantumi, sparsa in un milione di piccoli pezzi. Nessuno si accorse di nulla. Nessuno domandò niente. PerchĆ©, semplicemente, non c’era nessuno che potesse farlo. La vita riprese identica a prima: una parodia della vita, senza battito, senza senso.

Passiamo l’esistenza ad aspettare la morte, e io, a dodici anni, sapevo giĆ  di esserci dentro fino al collo

— solo che camminavo ancora. Molti non se ne accorgono, ma la vita ĆØ un costante morire.

A quell’etĆ  avevo giĆ  scoperto due veritĆ  definitive: che si può essere morti pur respirando, e che esistiamo solo nello sguardo di chi ci ĆØ vicino. Come l’elettrone della meccanica quantistica, che esiste solo se c’è un osservatore, solo allora possiamo scoprire dove va a ficcarsi.

Io non sono osservato nessuno. E dunque, non esisto.

E’ la disperazione del disamato, di colui che non ĆØ mai stato amato abbastanza.

La natura ĆØ caos e annientamento. Distruzione e ricostruzione.

CosƬ cominciai a recitare. Mi cucii addosso un personaggio per sopravvivere al silenzio: simpatico, affascinante, carismatico. Una stella sul palco, la prima donna dello spettacolo. Inavvicinabile come le regine più belle e più sole. Volevo essere il protagonista assoluto, al centro dell’attenzione nonostante la mia timidezza abissale. Ma tutto questo non fece altro che allontanare ancora di più gli altri.

Frequentavo la palestra, studiavo recitazione, sperimentavo trucchi, droghe, illusioni. Ogni gesto era parte della mia trasformazione. Alla fine, non sapevo più chi fossi. La luce che mostravo agli altri era solo un riflesso sbiadito mentre dentro di me, il buio cresceva e mi avvolgeva. A quattordici anni cominciai a scrivere ed erano solo poesie d’amore infantili. A vent’anni, scrivevo di assassini e delitti. A quaranta, della morte e della disperazione. Del vuoto dentro. L’inchiostro ha seguito la traiettoria delle mie ferite.

Ma già a dodici anni, sotto il letto, nascondevo un cavo elettrico. Volevo attaccarlo alla presa, farmi un elettroshock da solo, ma quando ci provai scattò una scintilla, e la gettai via, spaventato. In quel cavo, in quelle fantasie, scorreva qualcosa di velenoso e maligno. Così nascono i mostri o gli angeli? O entrambe le cose?

Carneval giĆ  ĆØ sulla strada per incastrarmi, e io non ancora non distinguo tra sogno e realtĆ , tra velo di Maya e materia reale. Sono sospeso ai bordi, come un fantasma nel suo limbo.

Ricordo quella coppia, mano nella mano, uccisa da qualcuno, distesa sotto un albero pieno di primavera.

L’amore e la morte intrecciati tra loro, indissolubili, inevitabili.

Quella notte sognai una stanza colma di luce bianca. Era senza porte o finestre, solo un’immensa luce avvolgente. Io non avevo un corpo ed ero solo coscienza. Al centro della stanza c’era una bambina.

Aveva i miei stessi occhi enormi e mi guardava sorridendo. A un tratto disse:

— Io ti ho sempre aspettato.

Era la mia bambola preferita. Ma non sapevo ancora se fosse lƬ per essere abbracciata.

O per uccidermi nel sonno.

Serie: Autobiografia di un sensitivo sensibile


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