A occhi chiusi

Serie: Anatomia sepolcrale di un sogno


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Gustav e la cantante cenano accanto alla finestra, discutendo della prova generale del bosco, mentre i genitori degli orchestrali si intravedono nel viale dissertare con fervore filosofico sulla prestazione dei loro ragazzi, creduti ancora vivi.

«Ho gli occhi che mi si chiudono, ma ti ascolto, Gustav. Puoi continuare. E poi a occhi chiusi ti sento meglio, come accade con la musica. Anche quando cantavo, chiudendo gli occhi tutto era più facile e sublime. I suoni della mia orchestra, i tempi, gli attacchi, le sospensioni. Nel buio della canzone tutto vibrava di una sua prima luce, che mi faceva sentire una persona migliore perché sola al mondo. Io comunque ci sono e ti ascolto» mi disse, con fare indolente, sofferto – ma non più sognante – che mi ferì.

«Allora dimmi chi sono i tuoi genitori. Descrivimeli, anche a occhi chiusi. Vorrei imparare a riconoscerli» ma Elvira era già crollata di sonno, con la testa china sulla sua spalla sinistra. I genitori degli orchestrali erano tutti rientrati, ormai. Dalla finestra il viale era grigio, deserto, senza forma.

Quella notte dormii male, peggio del solito. Fui attanagliato da pensieri contorti. Nel buio non ero più il direttore, ma l’ultimo dei poeti, degli uscieri o dei camerieri d’albergo. Mi alzai diverse volte, andando a vedere le luci della notte dalla finestra, immaginando l’orchestra dei morti, il bosco, il sonno dei loro genitori ignari quanto entusiasti della prova generale del concerto. Ero assetato. Bevevo acqua ghiacciata pensando alla mia Lara, a un suo reggicalze sdrucito, come alla nuova rivista di poesia ermetica; poi al tribunale, alla voce del giudice Max, fino alle gambe capolavoro della signora volpe. Guardando il cielo, il suo ammasso di nuvole che si preparava a un’esplosione. Pensando alla possibilità di un temporale e a cosa ne sarebbe più stato del loro concerto notturno, come di me e della mia esistenza senza di loro. Come si sarebbero protetti dai lampi, dalla pioggia, dai rami stregati degli alberi? Mentre rimuginavo e bevevo acqua, ecco dal viale, accanto a un palo della luce, comparire un uomo magro, dall’aspetto familiare. Mi stava guardando. Era il cartolaio. Ebbi un moto di gioia nel rivederlo. Sarebbe stato magnifico avere una persona con cui parlare, passare il tempo, confidarmi su tutto ciò che mi stava accadendo e che non capivo, e che riguardava anche lui. Gli feci un cenno con la mano, che lui subito interpretò come un invito a salire. Gli dissi di raggiungere l’ingresso e aspettarmi lì, senza muoversi. Mi fiondai giù, non prima di aver controllato il sonno innocente di Elvira. Raggiunsi la hall in pochi balzi, e me lo trovai fuori, infreddolito, nella mia attesa. Non c’era nessuno, nemmeno il portiere e il personale notturno di servizio. Regnava una pace profonda, irreale. Lo feci entrare, aprendo con cautela dall’interno. Il cartolaio mi si avventò addosso, cominciando a singhiozzare. Era tutto tremante, mal ridotto – di sicuro per la colluttazione avuta in albergo, di cui già ero stato informato nei dettagli dalla signora volpe.

«Che cosa le succede? Vedrò di procurarle un biglietto, stia sereno, che tutto si risolve. Abbia fiducia in me, soprattutto» gli dissi.

«Ma non è per il biglietto, direttore. Non so come spiegarle, dovrei cominciare da troppo lontano…»

«Adesso si calmi e mi segua, ma in silenzio. Ci parleremo nel salottino della mia suite. Non vorrei che qualche spia del tribunale possa ascoltarci» gli feci, avviandomi con cautela verso le scale. Il cartolaio mi obbedì, seguendomi passo passo nel buio soffocante dell’albergo. Lungo il percorso intravidi su di una parete le nostre figure confuse, come una sola ombra. Una volta dentro la suite, lo portai in un salottino ben protetto, lontano dalla zona notte dove dormiva la cantante, lo stesso che sarebbe stato adibito per ricevere i familiari degli orchestrali, come pianificato e poi rimandato. Il cartolaio era conciato male. Aveva gli occhi rossi, le guance infossate, la barba incolta. Tossiva di continuo e ogni tanto si tastava la spalla sinistra, dove il portiere si era maggiormente accanito, come lui mi precisò.

«Quel maledetto» mi diceva, stringendo gli occhi e invocando maledizioni contro un portiere diurno, e non ancora identificato. Intanto feci gli onori di casa. Per quella particolare occasione non poteva mancare un buon brandy con i bicchierini adeguati. Dopo qualche sorso l’uomo cominciò a calmarsi. Mi disse, affannando, che la sua afflizione era derivata in primo luogo dal fatto che sua figlia era stata portata nel luogo boschivo delle prove, la stessa sera. Gli avevano telefonato a casa, dicendogli che la piccola insisteva, e allora la direzione dell’albergo, non volendo avere più contatti con lui, a causa della sua irruzione, aveva chiesto alla piccola se ricordasse un componente della sua famiglia, al di fuori di suo padre, naturalmente, che avesse il buon cuore di prelevarla, e lei subito, senza alcuna esitazione, fece il nome dell’insegnante dell’Accademia Chopin.

«Di colpo l’insegnante dell’accademia che diventava un riferimento, al pari, se non di più, di un familiare, capisce? Non lo avrei mai creduto possibile! Quando mi hanno detto al telefono che l’insegnante con un suo giovane allievo erano entrati nella sala tv dell’albergo per portare la mia bambina ad assistere alle prove nel bosco, la mia commozione ha raggiunto il limite. Mi sembrava una grande opportunità, oltre a un segno di fiducia nei confronti delle qualità musicali della mia piccola, che finalmente le sarebbero state ufficialmente riconosciute, a dispetto dei mortificanti responsi più o meno recenti sul suo conto, di cui le ho già parlato in abbondanza. Anche mia moglie pensava che dovevamo leggere nel gesto un’importante schiarita e così ci siamo rasserenati, almeno per qualche ora. Ma intanto il tempo passava. Si era fatto buio e mia figlia non arrivava. Ho cercato di comunicare col numero dell’insegnante e col numero del suo allievo, ma non rispondeva nessuno. Temevamo fosse accaduta una disgrazia, allora mia moglie mi ha detto di correre subito in albergo dal mio amico avvocato, essendo certa che fosse l’unica persona capace di aiutarci e restituirci, attraverso i suoi contatti, nostra figlia. Secondo lei l’insegnante riporterà la bambina in albergo; ma io le dicevo che nostra figlia conosceva perfettamente il nostro indirizzo; che senso avrebbe avuto riportarla dal bosco in albergo? Lei cosa ne pensa, avvocato?»

Continua...

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