A piedi nudi sulle spine

Susi era stata educata, per molti anni, nel collegio San Giuseppe di Santulussurgiu. Un’ educazione rigida, con regole, punizioni e ben poca libertà di espressione. Non aveva pronunciato una sola parola volgare in tutta la sua vita. Per lei le parolacce erano: cretina, che cavolo, ma và a Varese. “Ma và a Varese” lo diceva da quando aveva cinque anni, dopo aver sentito un’altra bambina, molto più grande di lei, che esprimeva qualcosa di simile, quando era arrabbiata. Da quel giorno, anche lei, quando litigava con qualcuna delle sue compagne, usava quell’espressione che aveva inteso male. E continuava a ripeterla anche a venti, a trenta e a quarant’anni, pur avendo capito, ormai da tanto, che solo lei diceva “Ma và a Varese”, invece di “Và a quel paese”.

Il giorno in cui lei e Ginetta si ritrovarono a camminare sul ciglio della strada provinciale per Castelsardo, in un’ora molto assolata, dalla sua bocca fuoriuscivano parole irripetibili, cariche di rabbia.

Le infradito si erano rotte, costringendola a proseguire con una sola ciabatta nel piede destro. Il piede sinistro scalzo, ad ogni pietruzza, ad ogni spina in mezzo all’erba secca e dura, la faceva strillare.

Aveva iniziato Ginetta, con “Brutti bastardi”. Susetta aveva rincarato la dose, con “Brutti bastardi schifosi”.

Non soddisfatta di quel piccolo sfogo, aveva continuato con “Brutti bastardi, schifosi, maledetti”.

Per non essere da meno, Ginetta aveva lanciato anche lei le sue maledizioni “Che vi possano schiacciare come merde; brutti stronzi che non siete altro”.

Insomma, avevano inveito a più non posso, usando un linguaggio scurrile che avrebbe fatto impallidire anche Pino, il cugino di Gi’ che lavorava dallo sfasciacarrozze e si esprimeva normalmente con un intercalare fisso: “Porca puttana ladra”.

Avevano camminato a lungo. Susetta zoppicava, mentre Ginetta si era tolta i sandali col tacco, per le bolle ai piedi che la tormentavano.

La speranza di fermare la macchina giusta per un passaggio sicuro fino all’area di sosta col telefono, cominciava a vacillare. Si erano fermati in tanti. Il primo somigliava a Bill Cosby senza i Robinson, senza Claire, senza Rudy, senza Denise… Il dottor Cliff Robinson della famosa serie televisiva, era stato un personaggio simpatico; il suo sosia di passaggio, che voleva rimorchiarle, aveva uno sguardo truce e spaventoso da serial killer. Meglio a piedi, avevano pensato le due amiche, ormai prevenute.

Si erano offerti di caricarle a bordo di una Jeep, anche quattro ragazzi, con la lattina della birra in bocca, un po’ sballati. Qualcun altro le aveva sorpassate con fischi e parole di sfottò.

Susi e Gi’ avevano deciso che sarebbe stato più prudente salire solo sulla macchina di qualche bella famigliola dall’aspetto affidabile, a costo di dover fare altri venti chilometri a piedi, scalze.

La prima vettura, con prole a bordo, (una vecchia Cadillac nera), dava l’idea della famiglia Addams. Susi e Gi, guardandosi in faccia, si erano intese al volo. “No, grazie, non importa” avevano risposto all’unisono, all’uomo calvo con la fronte alta e gli occhi strani. “Stiamo facendo due passi; preferiamo andare a piedi. Oggi è una bella giornata.”

Una macchina vintage carica di bagagli sul tettuccio e tre bambini sul sedile posteriore, pressati dalle valigie, sembrava l’ultima versione della famiglia Brambilla in vacanza. Avevano rallentato per scusarsi, dicendo che non avevo posto neanche nel cofano.

Susi e Gi’ si erano guardate perplesse: non capivano se l’intenzione, nel caso fosse stato vuoto quel vano, fosse di rinchiuderle là dentro o di spostare lì qualche valigia.

La terza macchina era un grosso Suv; avvistandolo da lontano poteva sembrare spazioso a sufficienza. Avevano incrociato le dita con una mano, mentre con l’altra facevano il gesto dell’autostop, col pollice.

L’uomo alla guida si era fermato per farle salire, proponendo di stringersi un po’, sul sedile posteriore. I ragazzi erano intenti a divorare con avidità, succulenti panini (almeno così sembrava dai loro occhi), con wurstel, cipolla, ketchup e maionese, che gli colava sul mento e sul sedile.

Avevano ringraziato il generoso conducente e avevano proseguito a piedi.

“Mi ricordavano qualcuno che conosco”, aveva detto Gi’, poco dopo. “Forse somigliavano ai personaggi di un altro film. Tu che dici?”

“Per me erano l’incarnazione vivente di un ritratto di quel pittore famoso… colombiano, che disegnava solo soggetti ciccioni, ballerine col tutù da due quintali, corpi rotondi e faccioni da luna piena. Come si chiama? Quello che…

Mentre Susi si sforzava di ricordare il nome del pittore, una Golf bianca cabriolet si era fermata accanto a loro. Una giovane donna con i capelli rossi, folti e arruffati dal vento, per chiedere dove volessero andare, si era tolta gli occhiali da sole, mostrando due occhi così azzurri da far invidia al cielo. “Io devo svoltare al bivio per Berchidda, posso lasciarvi alla prossima area di sosta, se volete.”

Susi e Gi’ non osavano sperare di meglio. Per qualche minuto le tre donne erano rimaste in silenzio, con No, signora no, in sottofondo. Susi aveva interrotto quel mutismo per prima, poco interessata, in quel momento, alla voce sensuale di Biagio Antonacci e al ritmo musicale della pizzica salentina, scandito dal suono dei tamburelli e della fisarmonica. C’era ancora molta rabbia in lei, che le rodeva in ogni cellula del corpo; nonostante le imprecazioni e le maledizioni non era riuscita a sfogarsi del tutto. Rivolgendosi a Elisabetta, la donna al volante, (Betta per le amiche), le aveva rovesciato addosso, con tutta l’ira che non aveva ancora smaltito, la storia del manichino, del cane morto in mezzo alla strada e della borsa, per portarsi via la Porsche. Qualcuno che forse le conosceva, le aveva dapprima seguite, poi precedute, per imboscarsi tra i lecci del boschetto. Dopo aver piazzato le loro esche, le avevano fatte cadere in trappola impossessandosi della loro auto. Quei fottuti testa di ca… volo, aveva spiegato frenando l’impulso, ormai costante, al turpiloquio spinto.

“Chiamiamo la polizia, allora”, aveva detto la conducente.

“A quest’ora non ci sarà più traccia di niente”, aveva replicato Gi’. “Qualche complice avrà fatto sparire tutte le prove. Ci prenderebbero per pazze.”

Nessuna delle due osava confessare il grosso dubbio balenato, poco prima, nella loro testa. E se la Porsche, comprata dal fu furfante, amico di Gi’, per quattro soldi, fosse stata già da prima, sottratta a qualcun altro con un furto? Se avessero indagato fino in fondo e avessero scoperto che viaggiavano su una macchina rubata, nei guai ci sarebbero finite loro. Altro che vacanze al mare, a Castelsardo. Vacanze al fresco a Badecarros.

Susi, col cellulare di Elisabetta, voleva chiamare Pino. Lui sarebbe andato a prenderle con qualsiasi mezzo; non le avrebbe lasciate in mezzo alla strada. Ricordava bene il numero di casa, ma dopo alcuni tentativi, aveva desistito. Pino, a quell’ora, stava ancora lavorando, sgobbando avanti e indietro col muletto e con gli altri mezzi della ditta; imprecando e insultando quelle povere donne di strada, ignare e incolpevoli del suo faticoso destino.

“Chiama la ditta”, aveva suggerito Elisabetta. “Come si chiama, lo sai?”

Susetta in quel momento aveva avuto un flash. Nella sua mente aveva visualizzato una coppia di tangheri e altri soggetti dipinti dal famoso artista colombiano. “Botero. Fernando Botero!”, aveva esclamato.

“Bene. Chiama la ditta Fernando Botero, allora. Fernando Botero? Ma sei sicura?”

“ Che cavolo stai dicendo?  Il sole ti ha bollito il cervello. Ama Rott & F.lli è il nome della ditta di demolizioni dove lavora Pino, mio cugino” aveva precisato Ginetta.

Dal sito internet, avevano provato più volte a contattare l’ufficio. All’ennesimo tentativo una voce di donna poco femminile, aveva risposto chi è, con un tono scortese e quasi scorbutico.

“Posso parlare con Pino? Sono Ginetta, sua cugina.”

“Senta, signora o signorina, qui non c’è nessun Pino. Solo leccio, eucalipto e faggio. Vendiamo legna da ardere. Ha sbagliato numero.”

Appena giunte all’area di sosta, Elisabetta, prima di proseguire per Berchidda, aveva deciso di concedersi una breve pausa caffè .

Non erano ancora scese dall’auto quando Susi e Gi erano sobbalzate sul sedile.

“Nooo!” avevano esclamato all’unisono.

Una Porsche bianca decappottabile, con sedili rosa shocking, era parcheggiata vicino all’ingresso del bar, a pochi metri dalla Golf.

Chi l’aveva rubata era obbligato a fermarsi per rifornire. La spia rossa della riserva era al limite. Strano che l’avessero lasciata in sosta, invece di ripartire a razzo. In quel momento un tipo alto, abbronzato, magro e brizzolato, con un fondo schiena alla Brad Pit nei suoi anni migliori, si era avvicinato alla vettura e aveva aperto il cofano con una mano, mentre con l’altra teneva una piccola tanica nera.

“Ecco, cosa dovevamo fare, prima di partire”- aveva esclamato Gi – “controllare il livello dell’olio motore; forse non ce n’era abbastanza. Abbiamo rischiato di fondere.”

“Meno male che ve l’hanno rubata”.

Tutte e tre avevano iniziato a ridere, scaricando anche l’ultima tensione residua.

Elisabetta, a quel punto, aveva deciso di aiutare le due donne un po’patetiche e abbastanza stagionate, ma poco uscite di casa. “Ragazze, tranquille: ghe pensi mi”, aveva detto, mentre le balenava un’idea eccitante. La rassegna jazz di Berchidda poteva aspettare. “Voi state in macchina. Vado, lo stendo e torno.”

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Discussioni

  1. Ti prego, Maria Luisa inserisci tutto in una serie: questa storia è troppo bella per perdersi nei meandri di racconti pubblicati giornalmente su Edizioni Open. Lo dico con convinzione. Di questi tempi c’è bisogno di sorridere, ridere: di storie come questa che fanno volare il lettore lontano e lo fanno camminare assieme alle tue simpatiche protagoniste.

    1. Ciao Micol. Grazie, ancora una volta, per il tuo prezioso sostegno. Finora non ero molto convinta di riuscire a cavarne qualcosa di buono o di utile (nel senso di suscitare almeno qualche sorriso)dalle mie Susi e Gi`alla Thelma e Louise. Un altro limite da parte mia e` che scrivo, correggo e pubblico, a mano a mano che elaboro qalche idea. Non ho mai la certezza di mantenere l’ ispirazione per andare avanti con la tessa storia. Potrei convertire dopo, se non perdo la “vena”, questi episodi, in una serie completa. Tu suggerisci qualche altra modalita` di pubblicazione, oltre quella online, tipo la rivista?

  2. Simpaticissimo epilogo del precedente racconto! Che dire, mi sono veramente divertito a leggere le battute qua e là e i vari riferimenti. Sarebbe stato divertente scoprire cosa sarebbe successo con la famiglia Addams. Il finale, fantastico. Ci sarà un seguito? Adesso mi ha incuriosito il nuovo personaggio, siamo ad un terzetto.

    1. Ciao Carlo, felice di leggerti, almeno in questo graditissimo commento. Mi sto arrovellando, tra una mansione quotidiana e l’ altra, per inventarmi qualche altra situazione che possa giustificare il titolo iniziale. Non dico altro, anche perche`- “detto tra noi” – ancora non lo so neppure io, come proseguire la disavventura delle due
      (ormai tre) donne. L’ ultima sembra piu` scafata; forse il trio …etta/ Betta, riuscira` ad evitare altri guai?

  3. Mi sono divertita tantissimo leggendoti! Tanta roba! Dal “ghe pensi mi”, al linguaggio scurrile che mi piace un sacco, all’infradito rotta che è la ciliegina sulla torta! A chi di noi non è capitato, almeno una volta nella vita di girare con una ciabatta al piede e una in mano? Veramente complimenti, Maria Luisa, per essere riuscita a tenere il tono così frizzante dall’inizio alla fine. So di essere indiscreta, ma sa molto di vita vissuta. Bravissima!

    1. Ciao Cristiana, grazie delle tue parole sempre gradite e stimolanti. Di vita vissuta, in questo, come nella maggior parte dei miei racconti, c ‘ e` ben poco, a parte le infradito che non uso piu`. I riferimenti ai luoghi, invece sono reali, da Santussurgiu a Castelsardo, compresa Berchidda. La rassegna jazz organizzata dal grande Paolo Fresu, con la sua ” magica” tromba, e` un evento importante. Penso spesso di andarci, per ora me l’ hanno solo raccontato le mie amiche. E per finire: le macchine decappottabili mi hanno sempre attratto, anche se ho sempre avuto, soltanto, una modestissima Panda.😉

  4. Bene i primi due racconti, ma con il terzo hai fatto ulteriori progressi. Davvero ben riuscito e con un finale da evidente “to be continued”.

    1. Grazie Nyam, a questo punto non posso piu` sottrarmi; spero di non deludervi. Sono sempre stata una persona molto “ricca” solo di fantasia; spero di non perdere anche quella. Un abbraccio.😘