
Abigail
Serie: Doomsday clock: 00:01 - Le catacombe di New York
- Episodio 1: Abigail
- Episodio 2: Il predicatore Davies
- Episodio 3: Two suns in the sunset
- Episodio 4: Megan
STAGIONE 1
Arrestò la bici sbandando sull’orlo della discesa e guardò giù al centro della depressione. Agli occhi dai due colori, verde e marrone, offuscati dalla polvere alzata dagli pneumatici scolpiti della sua BMX, per qualche istante il paese le apparve com’era stato l’ultima volta che l’aveva visto alla luce del sole.
Quella polvere, grigia e impalpabile, andava posandosi impietosa sul cappuccio del giubbotto militare, sul fazzoletto che le copriva naso e bocca, sullo zaino contenente le poche cose sottratte alla catastrofe, sulla pelle delle braccia sudate e non sarebbe bastato un bagno caldo per eliminarla.
Ricacciò indietro uno starnuto, ormai la tela del fazzoletto era impregnata di polvere. Così come gli occhiali attorno agli occhi, togliendolo le avrebbe lasciato sulle guance due mezzelune di terriccio secco, fastidioso.
Si alzò sui pedali e con una spinta decisa, un leggero balzo in avanti, si lanciò giù lungo il pendio, nell’aria crepitante di piccole scariche elettrostatiche.
La velocità aumentava in modo costante, tanto che l’aria penetrava anche attraverso le guarnizioni degli occhiali e, ancora prima di accorgersene, si ritrovò la bocca piena di sabbia, entrando in una nuvola sospesa. Lo strano fenomeno si riscontrava all’interno delle depressioni, come quella, quasi che la forza di gravità fosse minore, generando colonne di sabbia altissime, quasi invisibili a occhio nudo, se non ci si ritrovava dentro come stava accadendo a lei. Negli stessi istanti, il contatore Geiger prese a segnalare la sua esistenza con un trillo leggero, che sembrava provenire dalla nuvola stessa.
Trattenne il respiro per non sputare all’interno della benda che le riparava la bocca, rischiando di restare senza fiato, proprio mentre usciva da quella tempesta di sabbia. Una volta fuori il contatore smise di trillare e l’aria ritornò quasi limpida.
Aveva rubato il contatore da una bancarella di un mercatino, all’interno del campo di raccolta di Palm Spings, nella zona gialla, due giorni prima. Il suo le era stato a sua volta sottratto mentre dormiva all’aperto, più di due settimane prima, ragion per cui solo ora stava ritornando a Twentynine Palms, che si trovava ancora in zona rossa. Il contatore era necessario per entrare, in modo che chiunque desiderava accedere fosse conscio del rischio che correva. A lei non importava del rischio, quella era casa sua. Ma anche per un altro motivo.
Lasciò che la forza d’inerzia della discesa a rotta di collo, conducesse la BMX all’ingresso del complesso abitativo, attraverso la due ali di un palazzo che, una volta, quando era ancora provvisto del corpo principale, abbracciava come una madre premurosa un parco giochi per bambini. Anche lei vi aveva giocato molte volte, lanciandosi spericolata sulle altalene, come faceva ora con la sua bicicletta.
Era lì anche la sera che un falso sole era sorto a est, mentre quello vero tramontava.
La spinta si esaurì qualche decina di metri più avanti, ma invece di spingere sui pedali, scavallò con la gamba destra, restando un istante in equilibrio sul pedale sinistro e, mentre le ruote si fermavano, saltò a terra.
Oggetti tintinnarono all’interno dello zainetto. Imprecò. Erano usciti di nuovo dalla loro custodia. Sperò che non si rompessero.
Parcheggiò la BMX contro il marciapiede, puntando il pedale e si sedette per controllare le capsule. La custodia era aperta e l’elastico che le tratteneva era saltato.
– Per fortuna non si sono aperte.
Erano intatte e le avrebbero fruttato il necessario per procurarsi del cibo e la dose di combustibile per riscaldarsi la notte. Ma a quello avrebbe pensato l’indomani.
– Ciao, Abi. Sei ritornata!
– Come ti avevo promesso, Mark.
Le andò incontro a braccia aperte, zoppicando, accompagnato dal suo cane.
Abigail tentennò, prima di ricambiare con un mezzo abbraccio, come facevano i componenti delle gang nei vecchi film. Poi si chinò ad accarezzare l’animale dell’amico.
– Ciao Binary, come te la passi? – Grattò la testa di I, mentre 0 cercava di morderle la mano.
Abigail prese dalla tasca una barretta al cioccolato, mangiucchiata poco a poco per farla durare di più, la spezzò in due parti e la regalò alla bestiola.
Si rialzò e rimise lo zainetto in spalla.
– Tuo papà è qui, Mark? Ho qualcosa per lui.
– È all’ospedale. Ti porto da lui.
Abigail accarezzò Mark sulla testa rasata. – Grazie.
Si avviarono con Binary che li seguiva a distanza, mentre le sue due teste si contendevano l’ultimo rimasuglio della barretta.
Lungo il tragitto, il ragazzino le raccontò quello che aveva fatto mentre lei era via, ma Abi non lo stava veramente a sentire, pensava invece al trattamento che l’aspettava. Non ci si abituava mai, anche dopo decine di volte. Il malessere profondo delle prime ore la rendeva insensibile a ogni cosa, odore, sapore o rumore. Per fortuna doveva sottoporsi a quella tortura più raramente di prima, però veniva da troppi giorni in cui aveva tenuto duro e quindi quella volta sarebbe stata più dolorosa del solito.
Quello che veniva pomposamente chiamato ospedale, forse per dargli una dignità agli occhi di chi sfortunatamente era costretto a entrarvi per ricevere cure, si trovava dentro un container di metallo, al riparo sotto il moncone di un cavalcavia tranciato a metà dall’esplosione. Le armature del cemento sporgevano all’esterno, piegate all’ingiù dal peso della parte crollata, così da sembrare i rami di un salice piangente.
– Papà non vuole che Binary vada lì dentro.
– Mi sembra sensato, Mark, – commentò Abi.
– Noi ti aspetteremo qui fuori.
– Ci vorranno delle ore, lo sai, – disse lei, comunque grata per quella dimostrazione di amicizia, ora che sentiva la tensione salire.
– Non importa. Così se dovessi avere bisogno di aiuto, noi saremo qui fuori.
Il padre di Mark uscì sulla porta. – Vi ho sentito parlare. Bentornata Abigail.
– Buongiorno dottor Bailey.
Sfilò lo zainetto dalla spalla e lo appoggiò sulla coscia, per aprirlo, ma il medico le fece cenno di attendere.
– Vieni dentro. Non voglio che ti metta nei guai, come l’ultima volta.
La accompagnò dentro, sospingendola dolcemente per la spalla.
Abigail tremò, passando dal calore esterno all’atmosfera ombrosa dell’ambulatorio.
Il dottor Bailey tirò la tenda dietro la quale c’era il lettino per le visite e invitò la ragazzina a sedercisi sopra.
– Dammi qua, – disse, prendendo il contenitore dalle sue mani tremanti. – Vediamo cosa c’è qui dentro.
Mentre armeggiava con l’oggetto, la vide muoversi più volte, agitata, strofinarsi il naso con il polsino della giacca militare, tirare le maniche fino a coprirsi le mani.
– Togli la giacca e sdraiati, per favore. Torno subito.
Se ne andò di là, chiudendo la tenda.
Abigail si era abituata alla temperatura più fresca dell’interno, ma stese la giacca sul lettino, perché la finta pelle beige la faceva sussultare ogni volta. Usando prima un piede e poi l’altro, lasciò cadere a terra gli anfibi impolverati e umidi di sudore. Si distese, rimanendo a fissare le dita dei piedi piccoli e leggermente paffuti, finché Bailey non ritornò con la macchina.
Le si avvicinò con lo sfigmomanometro, dando inizio alle operazioni preliminari.
– Infila il braccio.
Lei obbedì.
– Non è ora di lavare quella maglietta? I quattro cantanti non si riconoscono neanche più.
– Sono gli U2.
Nell’immagine i quattro posavano nel deserto, davanti a un albero spoglio e glabro, quasi antico. The Edge, il chitarrista, sembrava un indiano, con quel cappello alto e nero.
– Mi hai raccontato molte volte perché ci tieni tanto, ma mi piacerebbe sentirlo ancora una volta.
– Ecco, – iniziò, – mia madre lavorava all’Harmony Motel, quando gli U2 si fermarono a fare delle fotografie, sa, per il loro album, The Joshua Tree…
Bailey si lasciò trasportare dalla bella voce di Abigail, che si affievoliva secondo dopo secondo, mentre raccontava del regalo che avevano fatto a tutti i dipendenti del Motel, la t-shirt autografata del tour mondiale, che portava il nome del loro ultimo disco.
L’uomo lasciò passare alcuni istanti di silenzio, prima di voltarsi verso il lettino, fino a che l’anestesia non ebbe fatto effetto.
Le sfilò la maglietta e la gettò tra le sue cose da lavare. Notò che si stringeva ancora il seno con una benda sfilacciata e anch’essa lurida. Girò la ragazza su un fianco, per snodare la benda, così da poterla sostituire con una pulita, liberando i seni da adolescente e, tra essi, vide la cicatrice sullo sterno, segno di una precedente operazione, eseguita più da un anatomopatologo, che da un chirurgo.
Quindi posò l’attrezzatura accanto alle gambe rannicchiate di Abigail, per iniziare l’intervento.
A metà del procedimento, lei parlò nel sonno, pronunciando una sola parola, del cui significato si era sempre rifiutata di parlare: catacombe.
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Wow ❣️ è veramente scritto benissimo
Ciao Emanuele, innanzitutto complimenti. Il genere del tuo racconto mi piace moltissimo, e trovo che possano nascere moltissime idee da questo tema.
Mi ha intrigato molto ed aspetto con ansia le prossime puntate!
Wow, non speravo che avesse così successo. Grazie anche a te e alla prossima puntata. Cercherò di mantenere le promesse.
Anche a me è piaciuto il modo in cui è scritta questa storia, l’argomento è sempre intrigante e anch’io come Giancarlo sono curioso riguardo al seguito.
Grazie anche a te per l’apprezzamento. Alla prossima puntata.
Molto bello, ben scritto. Seguirò sicuramente le prossime… Puntate. Mi hai incuriosito tanto. Peraltro questo genere di distopia post-atomica mi intriga tantissimo ed io stesso mi azzardo a scriverne di tanto in tanto.
Grazie per la condivisione!
“una barretta al cioccolato, mangiucchiata poco a poco per farla durare di più, la spezzò in due parti e la regalò alla bestiola”
Ti prego di scusarmi per l’appunto, ma da papà di una bellissima cagnolina vorrei farti notare che per i cani il cioccolato è altamente neurotossico
Farei spoiler se dicessi il perché questo cane mangi cioccolata, ma visto il genere di questo racconto, puoi tranquillamente capirlo da solo. Grazie per l’ apprezzamento.