Al di là del bordo – 4

Serie: Orrore ispiratore


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Il testo racconta di una vicenda parallela a quella de "I salici" di Algernon Blackwood. Autore: @gabriel-e_02. È consigliata la lettura continuata delle quattro parti per una maggiore immersione.

Immediatamente dopo, seguì una reazione che non avrei mai previsto, e che eppure era quanto di più naturale in quel momento l’apparenza potesse suggerire. Trascorsi qualche secondo in completo in silenzio, poi scoppiai in una fragorosa risata.

«Ma che cosa diavolo ti prende?» gridai, questa volta con un tono di forte ilarità nella voce. Non potevo smettere di ridere.

Kovács, in risposta, prese a ridere di gusto come me. Per un minuto o due, l’atmosfera tra di noi si alleggerì tutta d’un colpo. I salici non ci intimorivano più, e potevamo guardarli quasi beffandoci del loro aspetto che solo qualche istante prima ci risultava così agghiacciante.

«Guarda come si muovono tutti là in fondo!» esclamò indicando la sponda alla mia sinistra, e io mi girai per vedere. «Sembrano dei ballerini esperti in perfetta armonia con la musica del vento: persino loro ridono di noi e della nostra ingenuità! Li abbiamo scambiati per dei mostri!»

Ma nella parte più profonda e autentica del nostro animo sapevamo che questo momento di allegria non sarebbe durato a lungo, e che la nostra mente non aveva fatto altro che impiegare la sua ultima disperata difesa per esorcizzare il pericolo da cui era minacciata. Non ero ancora consapevole di aver appena assistito all’ultima manifestazione completamente umana del mio migliore amico.

Dopo un po’ smettemmo di ridere, come di comune accordo, e in un tempo brevissimo tornammo nell’incubo. Quella strana vibrazione tutta intorno a noi si era accentuata: adesso era indiscutibilmente più vicina e si ripeteva con un ritmo impazzito.

«Questo dannato suono non viene dall’acqua! Non viene dal vento e non viene nemmeno dai salici!» urlai ancora una volta, in preda a un’esasperazione di nervi. Ormai avevo del tutto ceduto: ero scoperto.

Poi mi ricordai di quali erano state le ultime parole di Kovács prima della crisi di ilarità, così seppi che non potevamo permetterci di soffermarci sull’isolotto un secondo di più; saremmo stati disposti a gettarci in acqua e farcela a nuoto fino alla prossima città, piuttosto. Ma per fortuna avevamo con noi la nostra barchetta e il nostro remo, grazie ai quali potevamo ancora forse sperare di uscirne senza perdere il senno. Scattai quindi in direzione della barca intimando al mio amico di seguirmi e di saltare su. Lui mi fissò impietrito e, dopo un breve momento di esitazione, si fiondò verso di me per aiutarmi. In meno di un minuto ci trovavamo già a largo dell’isola, nelle mani del Danubio in piena. Nella fretta, abbandonammo anche gli zaini e le canne da pesca.

Non posso sottrarmi al dolore che mi causa riportare qui le ultime vicende, ma devo concludere quello che ho cominciato in rispetto dell’uomo che si chiamava István Kovács.

Per i primi minuti nei quali avevo tentato di governare la barca con il nostro unico remo, avevo lottato con le onde allo stremo delle mie forze perché il senso di appesantimento dell’aria non si era ancora dissolto. Ora però stavo lentamente recuperando le energie, deciso com’ero a fare più del possibile per superare sani e salvi quella regione di salici dimenticata dagli uomini. La mia mente era focalizzata su un compito ben preciso: non potevo permettermi distrazioni di alcun genere o ne sarebbe andato della nostra vita. E adesso posso affermarlo senza ripensamenti: fu questo dettaglio a salvarmi.

Il mio amico era rimasto privo di un’occupazione pratica, così che la sua mente si ritrovava indifesa e facilmente localizzabile. Mentre muovevo il remo con tutta la foga che le mie braccia mi consentivano, lui non faceva che agitarsi spaventato sul fondo della barca, gridando parole e frasi disconnesse. Quanto mi faceva star male vederlo soffrire proprio davanti ai miei occhi senza poter fare niente per aiutarlo! Gli urlai qualcosa che voleva essere incoraggiante, ma non ero sicuro che la mia voce gli fosse giunta all’orecchio. In mezzo al fragore delle rapide l’odioso ronzio non era ancora scomparso, e anzi pareva avvicinarsi sempre di più e presto ci avrebbe trovati.

Intanto continuavo nel mio tentativo di mantenere la barca il più lontano possibile dalle sponde di salici, quando senza segno di preavviso Kovács si affacciò dal bordo e guardò giù verso l’acqua, per poi provare a gettarvisi. Per poco non mi scivolò il remo dalle mani, ma feci appena in tempo a lasciarlo cadere davanti a me per afferrare il corpo del mio amico e tirarlo indietro. La barca perse il suo equilibrio per qualche secondo e quasi ci ribaltammo. Lui però sembrava aver perso completamente la testa e continuava a dimenarsi nonostante i miei sforzi per tenerlo fermo, mentre urlava cose insensate con una nota nella voce che non gli riconoscevo.

Ma alla fine la sua mente cedette, dando al corpo la forza di divincolarsi da me e lanciarsi senza esitazione oltre il bordo. La barca vacillò ancora e, un attimo dopo, vedevo l’uomo che era stato István Kovács annegare nella corrente. Rimasi come paralizzato per quella che sembrò un’eternità. Il mondo mi era caduto addosso. Poi il peso dell’atmosfera tornò a farsi naturale, e il suono che fino ad ora ci aveva tanto atterrito si disperse.

Prima che il destino, che quel giorno si era rivelato così imparziale nei nostri confronti, mi conducesse illeso fino a Komárom, vidi attraverso la luce incerta del tramonto, a grande distanza, due piccole figure in piedi su un’isola in mezzo al fiume. Mi tornò alla mente l’immagine della canoa che avevamo visto sfrecciare sull’acqua quella stessa mattina, e i due uomini che la dirigevano. Ripensando a quello che avevamo vissuto solo poche ore prima, avvertii un inevitabile senso di pietà per quei due sventurati che come noi erano stati costretti a trovare riparo in quel territorio. Raccolsi tutto il mio fiato e gli urlai che dovevano andarsene da lì e che erano in pericolo, ma il continuo rombare del vento rendeva tutto inutile. Allora il mio sguardo ricadde per un’ultima volta sul corpo senza vita del mio migliore amico, lontano fra le onde, e lentamente mi feci il segno della croce con le lacrime agli occhi. E infine il Danubio mi trascinò via tra i salici.

Serie: Orrore ispiratore


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Discussioni

  1. Ho quindi letto l’intera storia. Le premesse sono state mantenute: l’ambientazione che già all’inizio lasciava trapelare un senso di oppressione, la potenza e la maestosità del fiume, di fronte al quale siamo nulla…
    L’angoscia che cresce nei due personaggi è contagiosa, ancora di più perché si tratta di un’angoscia senza nome: cos’è che li spaventa? è la stessa cosa che li fa ridere di gusto? è reale o si tratta di follia. E poi, la follia di chi dei due?
    Non conosco il racconto da cui hai preso ispirazione, ma devo dire che ho gustato fino in fondo la tua versione!

    1. Ti sono venute in mente le stesse domande che pone la quarta di copertina de I Salici, il libro a cui mi sono ispirato: dunque direi obiettivo raggiunto! 😀
      Ma c’è una cosa in cui non mi sono dimostrato fedele alla storia originale: l’ineluttabilità di fondo (a dispetto della quarta di copertina, ma percepibile solo forse a una lettura attenta) che gli eventi narrati sono reali e non frutto di follia. Qui invece purtroppo non ho avuto gli elementi per trasmettere questo messaggio, e che eppure è il basamento stesso della letteratura weird, di cui Blackwood è stato un pioniere. Dunque è assolutamente legittimo l’insorgere di domande come queste. Un po’ era anche il mio intento ovviamente: ti assicuro che se deciderai di leggere I Salici ne saprai molto molto di più su questo piccolo universo in cui ho voluto sguazzare in occasione dell’iniziativa su Rue Morgue 🙂
      Ti ringrazio tanto del commento e della partecipazion, Antonio, un caro saluto e ci si legge presto!

  2. Ho finito adesso di leggere i 4 episodi. Come avevi già anticipato tu, Gabriele, non è un racconto che può essere letto a pezzi. Purtroppo non conosco il racconto originale, ma leggendo il commento di Giuseppe ho colto quel riferimento agli altri due personaggi che corrono “a canoa levata”. Cosa posso dire, hai uno stile perfetto, molto letterario e ben curato. Hai mescolato le parti descrittive a quelle attive evitando così lunghezze narrative che ti avrebbero complicato la vita. È un racconto con la R maiuscola: stati d’animo, ambientazione, scena chiave snocciolata con i giusti tempi e che si affianca al malessere oggettivo e fisico provato dai due protagonisti. Non manca davvero nulla al tuo racconto. È stata una piacevole lettura e ti ringrazio per averla condivisa. Inizio a comprendere il lavoro che fai quando scrivi, ci metti davvero molto impegno e cura e si vede. Impeccabile.

    1. Ciao Maschera, grazie infinite per queste belle parole! È sempre molto bello riscontrare che qualcuno ha apprezzato il proprio lavoro, in misura proporzionale all’impegno che sta dietro quest’ultimo. Nonostante si tratti di un testo relativamente breve, mi ha richiesto non poco tempo ed energia (in questo devo migliorare se proprio voglio tenermi il vizio di soppesare, leggere e rileggere ogni singola parola che scrivo finché non mi soddisfa), ma la possibilità di condividerlo sulla piattaforma ha ripagato senz’altro. Come dicevo sul gruppo, è stata anche un’occasione per me di consolidare alcuni aspetti e modalità narrative a cui tengo particolarmente e che vorrei conservare e migliorare nel corso del tempo.
      Un caro saluto e ovviamente spero di leggere uno o più testi scritti da te per la prossima iniziativa di Rue Morgue!

  3. In questo racconto ho ritrovato tanto lo stile quanto le atmosfere del grande Blackwood: le sue descrizioni, il lessico, quella sensazione di pericolo indefinito, che solo i grandi maestri del passato sono in grando di trasmettere.
    Ho apprezzato tantissimo l’inserimento, a mo’ di cameo, dei protagonisti del racconto originale: è un particolare che dà molto spessore e valore alla storia.
    Hai fatto benissimo a scriverla in quattro parti, in realtà una, perché per sua stessa natura, questa storia meritava e pretendeva di essere narrata secondo le giuste tempistiche.

    1. Ciao Giuseppe, grazie per il bel commento! Mi fa piacere che, avendo letto I salici, tu abbia riconosciuto i due protagonisti. Sai, quel tizio sulla barca che appare a circa 1/3 del racconto mi ha sempre affascinato, e così ho voluto dargli una storia (a lui così come alla “lontra”). Non è stato facile trovare una giustificazione valida per spiegare la presenza di qualcuno, di sera, su un fiume in piena, ma alla fine ho optato per una cosa semplice ma abbastanza efficace.
      Sull’atmosfera e sul terrore indefinito beh, senza dubbio sono gli elementi che mi hanno fatto innamorare di Blackwood, e il suo stile nel trasporli su carta spero di portarmelo dietro il più a lungo possibile.
      Grazie ancora!

  4. Un finale quasi poetico. Hai lasciato un senso di incertezza sull’origine della follia di Kovács, e credo che sia stata la scelta giusta. Ancora complimenti per la scrittura, ricercata ma allo stesso tempo fluida.
    Per quanto riguarda Blackwood, mi hai senz’altro incuriosito. Ne approfitto per dire che questa idea, “Orrore ispiratore”, è stata ottima!

    1. Grazie Nicola per aver letto di fila le quattro parti, mi fanno molto piacere le tue parole 🙂
      Questo senso di incertezza è stato per metà voluto (come a dire velatamente: “se vuoi saperne di più c’è I salici che ti aspetta) e per metà leggermente forzato, come spesso accade, dalle 1000 parole: mi sono trovato in quella strana situazione per cui un episodio in più sarebbe stato troppo, ma allo stesso tempo un episodio in meno sarebbe stato un po’ poco, per così dire.
      Su Orrore ispiratore che dire, grazie a te per aver partecipato con il tuo testo in due parti, fa sempre piacere quando si porta avanti qualcosa di più del “minimo” 🙂 Un saluto e a presto!