All’ombra del faro
Serie: Tutti e quattro
- Episodio 1: Il faro di agosto
- Episodio 2: All’ombra del faro
STAGIONE 1
Fu allora che il piccolo sgusciò via dal portone di casa, rimasto misteriosamente aperto: il bimbo aveva appena cominciato a camminare ed era simile a un goffo anatroccolo. Aveva visto subito le rotaie lucenti, le sfiorò con le manine paffute, si ustionò, si allontanò impaurito, poi salì tutto serio sulle traversine di legno e cominciò a saltarci sopra: “uno, uno, uno”, scandiva, era l’unico numero che conoscesse.
Così il bimbo avanzava sulle traversine di legno, sfidando l’afa, e il tempo era come rallentato, simile al torrente che lì accanto si muoveva molle e quasi gelatinoso, limpido, sui pochi lucci stupiti.
Pure il treno si muoveva torpido e goffo, come oppresso da inusitata stanchezza: si spingeva con sforzo nel vento afoso, avanzava mostruoso e pesante sulle traversine di legno, e quando il macchinista vide il piccino da lontano, pure il suo orrore fu lento e soffocato, quasi subacqueo, e lenta, lenta la mano che corse verso il freno.
Intanto la madre uscì dalla doccia, e già sudava di nuovo avvolta nell’accappatoio. Non vedendo il figlio nel box, volse lenta gli occhi verso la strada ferrata, una ferma paura negli occhi. Perciò, con passi felpati, si diresse verso le rotaie con piccoli passi, stremata dall’orrore. Il macchinista raggiunse lentamente il freno, il mostro d’acciaio aumentò la sua lentezza e, sonnolento, sornione, in una nuvola di vapore pesante si fermò proprio davanti, a un passo dal bambino caracollante.
Nell’aria colma di vapore, quasi liquida, si perse il grido della madre. Ma aveva urlato?
Ci fu l’urlo di bestia scannata, il grido giovane e acre di chi viene colpito a tradimento. Si perse quel grido sulla corrente vorticosa del fiume: veloci andavano i mulinelli, e ora c’erano le rapide!
Tornò dietro l’eco, là dove Memo agonizzava. E per che cosa, poi? Solo per aver corteggiato una sedicenne smorfiosa e prodiga di favori. Solo per questo lui era stramazzato sull’asfalto massiccio per il calore, pugnalato da un ragazzetto che, dopo averlo sfidato solennemente e pateticamente a duello, alle cinque della sera, sui binari arroventati, con meno solennità e tanta prorompenza gli aveva prima sferrato una testata, e mentre Memo tramortito si portava le mani alla testa, l’altro lo aveva passato da parte a parte con un coltello, là, nel ventre tenero e muscoloso, nella pancia morbida di ex bambino.
Però Memo resisteva: accanto al binario arrugginito aspettava i soccorsi, guardava attonito il suo sangue che in rivoli scivolava via, in larghi festoni, tanti nastri rossi che si perdevano accanto alle belle di giorno, screziate di giallo e di vermiglio. Arrivò infine una fiammante autoambulanza.
E squillava a distesa il trombettista del settimo cavalleggeri, e anche le trombe di Gedeone squillavano potenti, facendo cadere le verdi mura di Gerico…
O era verde il telo salvifico della sala operatoria in cui lo avevano portato?
Squillava la tromba di Orlando: “Portateci soccorso”, diceva agli alleati, “salvateci, o almeno sappiate salvarvi almeno voi! Sfuggite all’attacco dei nemici!”
E lo squillo giunse fino al pozzo di luce tra gli edifici della stazione. Gli operai dell’Enel avevano tagliato e asportato quella pericolosa rete metallica che intrecciava i cavi, e subito dopo, da sotto i rampicanti, si mosse un’onda rosea: era un’ala… no, erano due ali, ali possenti, piume rosa frenetiche che squarciavano le foglie avviluppate.
Un folle collezionista aveva ammucchiato di tutto in quel pozzo di luce: esotiche orchidee che mancavano ed esalavano zaffi di vaniglia e di acido solfidrico, e poi cactus grandi e nani uniti in un ammasso di spine.
E lui, il fenicottero, si dibatteva in quel marasma: provò a innalzarsi, ma ricadde, ferendosi le ali sulle punte delle strelizie, insanguinò i gelsomini, imbrattò le gardenie, le rose, tutte bianche corolle affogate tra le ortiche. Affondò tra le felci, ma fu solo una pausa: poi riprese il moto possente delle penne, e alla fine, stirando di sangue i muri imbiancati del pozzo, il fenicottero si tuffò nel cono di luce e il suo piumaggio trionfante riempì l’azzurro del cielo.
Lo riempì, prima di sparire lontano, grazie a un’insperata fuga.
Dora misurava il perimetro della sua gabbia: dodici mattonelle in orizzontale, ventiquattro mattonelle in verticale, per un totale di duecentottantotto mattonelle.
Dopo aver lavorato fin dall’età di undici anni, cioè per quattro lustri esatti, ecco che lei si ritrovava proprietaria di duecentottantotto mattonelle bigie come il suo camicione. Ma cosa ci faceva lì, in quest’incessante andirivieni? Che ci faceva lì?
Si disse disperata che lei era la titolare, che quello era il suo negozio e che tante persone avrebbero dato la mano destra per avere un salone di quel livello. Sbuffò irritata, spostò il peso da una gamba all’altra e con la coda dell’occhio vide il profilo del marito: Saro. Ormai solo così riusciva a guardarlo, di lato, di soppiatto, di sfuggita, perché il suo sguardo rimbalzava stizzito dalle sue camicie vistose a fiori.
Pure lo specchio finì con l’appannarsi, e Saro fu nascosto dall’addensarsi del vapore. Poi, tra le gocce condensate, si ricompose l’altro viso, quello di Cecè, con i suoi capelli lunghi, quelle ridicole gocce stoppose, decolorate dall’acqua ossigenata, platinate dall’ammoniaca.
Quante volte Dora lo aveva guardato con pena. “Povero ragazzo” mormorava. Ragazzo diceva, non frocio, né ricchione, come il quartiere tutto lo apostrofava.
A lei Cecè faceva pena, con quei pantaloni attillati, con il sedere che andava a balzelloni, e quei gridolini acuti che facevano il verso alle commedie all’italiana, quelle sceneggiate scollacciate che andavano tanto di moda in quei tristi anni ’70: c’era Renzo Montagnani che recitava mesto la nuova sguaiataggine.
Intanto, la radio, tra una canzonetta e l’altra, elencava i cadaveri di Brescia, i cadaveri dell’Italicus, i cadaveri di Monaco: così gracchiava l’onnipresente stazione radio.
Ma il ricchione, il frocio, per l’appunto, era l’amante di suo marito e, di combutta, ora con una firma fasulla, ora con l’ipoteca, le avevano soffiato il negozio. E lei non era più titolare di niente, ma una semplice shampista, vittima degli sfottò dei due amanti:
“Dora? Devi utilizzare le forbici, non il rastrello per tagliare i capelli.
Dora, hai mai sentito parlare del taglio scalato?”
Serie: Tutti e quattro
- Episodio 1: Il faro di agosto
- Episodio 2: All’ombra del faro
Beh, sei fortissima con le metafore e io le tue le adoro… perché portano indietro nel tempo e ti danno da riflettere su quanto siamo ignoranti. La tua scrittura mostra una grande conoscenza e questa fa di te una scrittrice con la S maiuscola. 🙂
” 👏”
Bellissimo questo pezzo. Wow Brava. 👏 👏 👏
Mi piacciono tantissimo queste carrellate in sequenza, cinematografiche, ricordano le pellicole di Fellini. Complimenti davvero.
grazie gentilissimo
“aumentò la sua lentezza”
Molto bella questa trovata.