
Andrej
Mi sembra di sentire la voce di mia madre. Mi chiama.
«Andrej. Andrej».
La sento a malapena. Il suono è distorto, lontano, eppure riconosco il mio nome dalla pausa tra la “e” la “j”. Solo mia madre mi chiama cosi. Per gli altri sono Andrea. Nato a Piteşti, trasferito in Italia poco dopo. Del mio paese non mi ricordo niente, eppure mio padre si incazza quando sente i miei compagni chiamarmi Andrea.
«Tu sei Andrej, Andrej come mio padre. Il tuo paese te lo devi portare dentro, devi esserne orgoglioso, orgoglioso del posto da cui arrivi, orgoglioso del nome e della storia che rappresenti. È chiaro Andrej?»
Gli rispondo di sì solo per calmarlo; non capisco la sua agitazione e mi spaventa il rigonfiamento sul suo collo. In genere non preannuncia nulla di buono. Per me Andrej o Andrea è lo stesso; se mi lasciano pedalare possono chiamarmi come gli pare.
Da grande avrò una bicicletta da corsa come quella di Bartali, adesso devo accontentarmi di questa che prendo in prestito da Francesco, il nostro vicino di casa. Ogni mattina sento la sua porta aprirsi lentamene. Lui cerca di far piano, ma il cigolio è forte e le mie orecchie lo riconoscono all’istante. Mi precipito all’ingresso e aspetto con la mano sulla maniglia. Dalla sua porta sgangherata vedo spuntare i baffi bianchi, arrotolati come le salsicce del macellaio di sotto. Guarda a destra e poi a sinistra, rientra per uscire, un attimo dopo, con le sue due ruote al seguito. Punta gli occhi sulla mia porta, indugia e io trattengo il fiato. Poi finalmente molla la bici sul muretto e si volta a chiudere la porta. È una questione di destrezza, di velocità. Esco come una furia, afferro il manubrio, inforco il telaio e sono già in strada.
«Uagliò», mi sento urlare alle spalle «allass la biciclett’».
«Dai France’», gli rispondo, «mi devo allenare. Se divento campione del mondo, ti regalo una coppa tutta d’oro».
«La copp te la ja dà n’gap, strunz», faccio in tempo a sentire prima di allontanarmi.
Mi alleno tutti i giorni d’estate e d’inverno. Ho letto da qualche parte che i muscoli veri te li fai da bambino e allora devo insistere adesso che ho 7 anni.
Sento ancora quella voce. Insiste. Dev’essere proprio mia madre.
«Andrej. Andrej».
Ma che ore sono? Non capisco. Qui è tutto buio. Ogni movimento mi costa fatica come in quel filmato visto in tv di quei tipi buffi a piedi sulla luna. Francesco mi spiegò che gli astronauti camminano in quel modo strano per via della “forza di gravità”. Disse proprio così: “forza di gravità” ed entrambi ci stupimmo che quella bocca abituata al dialetto avesse parlato in perfetto italiano. Quando però, dopo lo stupore, gli chiesi cosa fosse la forza di gravità, smise di ridere e si riprese la bocca:
«Vattin strunz, vattin a cast’, che cazz’ di domand ve facen’?»
Ora so di non essere sulla luna, eppure credo che la sensazione sia proprio quella: non respiro e la testa si fa pesante. Forse indosso quei caschi a sfera degli astronauti. Come ci sono finito qui? Stamattina sono andato al mare e mio padre mi ha insegnato a nuotare. Mi ha infilato le braccia sotto la schiena e ha detto:
«Vedi? L’acqua ti tiene su se non provi a stare su. Rilassati, Andrej, lascia fare al mare».
Ha poi sfilato di colpo le mani e io sono andato giù come un salame, come le salsicce arrotolate sulla faccia di Francesco. Ho respirato e l’acqua mi è finita nel naso. Ho aperto la bocca per tossire e pure lì si è infilata. Ho provato a tornare su, a rilassarmi, ma le gambe si agitavano da sole, pedalavano senza pedali e senza bici. Anche adesso stanno facendo così: pedalano e pedalano e io non riesco a fermarle. Ma dov’è mio padre? Stamattina mi ha afferrato per il braccio e mi ha tirato su. Dopo il mare siamo andati a casa del suo padrone. È una casa bellissima, con le altalene e la piscina. Mio padre si è messo a lavorare in giardino e mia madre in casa. Mia sorella si è addormentata sulla sdraio sotto l’ombrellone e io ho cercato di imparare a nuotare da solo. Ho pensato: se non mi va bene con il ciclismo, un’alternativa devo pur avercela, ma credo di stare sbagliando tutto perché non riesco a tenermi a galla.
«Andrej. Andrej».
Sì, è proprio mia madre a chiamarmi. Provo a dirle che non deve preoccuparsi perché sto solo imparando a nuotare. Le parole però escono dalla bocca per poi richiudersi subito in bolle d’aria. Le vedo salire e immagino che, una volta su, si romperanno liberando la mia voce. Non voglio che mia madre si preoccupi, devo tornare a galla. Devo ascoltare mio padre, rilassarmi e lasciare che sia l’acqua a guidarmi. Penso alla maglia rosa, a Bartali tutto sudato su per le montagne. Mi figuro il suo nasone gigante a forma di pinna di pescecane. Se avessi il naso di Bartali adesso salirei più velocemente. Ma forse non serve, le gambe si sono fermate, non pedalano più, non si muovono.
Sento ancora una volta la voce di mia madre. Adesso è come una carezza appena abbozzata, un saluto, una raccomandazione. “Fai il bravo Andrej, non metterti nei guai anche lì”. Non capisco ma le rispondo lo stesso:
«Guarda mamma, ho imparato a nuotare talmente bene che sono diventato un pesce».
Lei però sembra non ascoltare. Chiama ancora il mio nome. Ripetutamente. Allora lo dico a Francesco, lui si, lui è abituato a sentirmi anche da lontano.
«Francè, devi dire a mia madre di non preoccuparsi perché ho imparato a nuotare; sono un pesce velocissimo, più di Bartali e di Gimondi.
«France’, oh France’ mi senti?»
«Sì sì, mica so’ surd»
Adesso lo vedo. Mi guarda e sghignazza sotto le sue salsicce arrotolate.
«Hai capito, France’? Sono un pesce adesso. Guarda, so stare anche a galla».
«Ma qual pesc’.», mi risponde sorridendo, «Uagliò, tu si ‘nu strunz».
Avete messo Mi Piace2 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Cara Teresa, non posso dire che sia stato un piacere leggere questo racconto perché mi ha instillato un senso di angoscia dall’inizio alla fine. Forse però era quello che tu volevi, non c’è nulla di più angoscioso di una morte per annegamento. Brava!
Ti ringrazio, Francesca.
Il racconto è piacevole, attraverso la voce del ragazzino si connotano bene l’impronta del padre e il calore della madre (all’inizio, “Sono mia madre mi chiama cosi”, credo dovesse essere “solo”). Non sono certo di aver interpretato correttamente l’epilogo: Andrej muore annegato nella piscina? Grazie Teresa per la lettura
Grazie Paolo, sia per la lettura che per la segnalazione del refuso.
Hai interpretato correttamente l’epilogo. Il racconto è ispirato ad un incidente, ahimè, realmente accaduto che ricordo sempre, nonostante i tanti anni ormai trascorsi, con grande amarezza.