Anton Kotov

Anton era rimasto solo: un gruppo di uomini erano finiti in una trappola nemica e li avevano fatti prigionieri. Molti altri erano stati colpiti a morte durante l’avanzata verso la costa. Il battaglione era diventato, in breve tempo, un “battaglino”; lo squadrone una squadretta di serie D. Un giovane soldato, dopo aver contribuito a far saltare in aria un ospedale per bambini e dopo aver vomitato succhi gastrici e fiele, si era puntato l’arma e si era fatto saltare il cervello. Il compagno di missione, dopo aver assistito alla scena, aveva deciso di disertare e si era dato alla fuga.
Anton era andato in crisi. L’avevano portato in quella regione vicino al mare, dicendogli che doveva fare addestramento, per respingere i nemici che tentavano di invadere il loro Paese. Anton non sapeva neppure di trovarsi oltre il confine, finché il comandante non aveva spiegato il piano strategico da mettere in atto nella città che si apprestavano a devastare. Quando suo cugino Ivan aveva espresso le sue perplessità, il tenente non gli aveva risposto. La mattina dopo era uscito molto presto, con Ivan, per una missione segreta. Il tenente era tornato quasi subito. Per Ivan la battaglia era finita lì.
Anton Kotov aveva diciotto anni, era orfano di padre, povero e ingenuo. Aveva smesso di andare a scuola quando aveva undici anni, per lavorare come garzone da un fornaio, che lo ricompensava con una bulka (pagnotta di frumento), al giorno e una manciata di rubli alla settimana.
Per convincerlo ad arruolarsi con gli altri ragazzi sprovveduti come lui e bisognosi di un lavoro, avevano promesso razioni di cibo gratuite, ricompensa finale con rubli e medaglie d’oro o d’argento, per meriti guadagnati sul campo.
Anton aveva pensato di far felice sua madre, scambiando l’oro o l’argento delle medaglie, con l’anello che lei aveva dovuto impegnare per riparare la grande stufa in pietra e argilla, indispensabile per i suoi mille usi. La russkaya pech’ con il forno, il piano cottura, il letto riscaldato, l’essiccatoio e la nicchia per la legna, che occupava gran parte dello spazio, al centro della loro isba, l’abitazione rurale in legno di pino, con una sola stanza soppalcata.
Anton Kotov, dopo i primi due giorni di viaggio, aveva già nostalgia di quel pane caldo e fragrante che consegnava a domicilio, ogni mattina, con la cesta sulla testa.
Le gallette della razione che gli avevano consegnato, erano secche, rancide e disgustose. Sognava un piatto caldo di borscht, la zuppa di barbabietole rosse, patate, panna acida e altri ingredienti, che preparava sua madre. La terza notte, ripensando a lei, era già pentito e addolorato. Nella tenda da campo, Anton aveva messo la testa sotto lo zaino che usava come cuscino, soffocando i singhiozzi, per non farsi sentire dai compagni.
Quando tutti gli altri erano stati uccisi, catturati o dispersi, lui era rimasto solo, infreddolito, sporco e affamato.
L’ultima razione di cibo, comprese le scatolette scadute da anni, l’aveva consumata in pochi giorni. Si sentiva debole. In quelle condizioni non era più in grado di combattere e neppure di stare in piedi. Era molto demoralizzato: tutti quei corpi dilaniati che aveva dovuto scavalcare, per andare oltre l’unico ponte che non avevano fatto esplodere, gli avevano dato il voltastomaco. Aveva guardato tutte quelle braccia, quelle gambe e quelle teste staccate dal busto e gli era venuto un conato di vomito, senza rigurgitare nulla, essendo digiuno da giorni. Nonostante la nausea, la fame non era passata. Poco dopo, camminando veloce all’aria aperta, aveva sentito un grande languore. Gli sarebbe piaciuto un bel cosciotto di agnello arrosto; oppure una coscetta di pollo, con tanto pane e acqua. Anton non sapeva neppure dove avrebbe potuto procurarsi un uovo qualsiasi.
All’improvviso gli era sembrato di sognare. Quando aveva sentito un verso che sembrava quello di qualche gallina che chiocciava rumorosamente, aveva temuto di avere la febbre alta.
Non stava delirando – aveva pensato – vedendo quei pennuti in lontananza, in carne e piume.
Per risparmiare i pochi proiettili rimasti in canna, aveva deciso di armarsi di pietre e bastoni, per combattere la sua lotta per la sopravvivenza. Aveva dovuto correre parecchio, appresso a quel pennuto, lanciandogli, insieme ai sassi, molte parole di rabbia. La gallina era vivace, mentre lui si reggeva in piedi a stento.
Dopo aver tribolato a lungo, era riuscito a bastonarne una, con tanta ferocia da spezzarle il collo. Quella, però, continuava a correre, col sangue che le colava sulle piume e la testa quasi mozzata, che pendeva di lato.
Dopo averla acciuffata, Anton le aveva strappato le piume, staccando anche molti brandelli di pelle. Non aveva tempo da perdere, né acqua, né fuoco, né pentola, per poterla immergere, senza spellarla quasi viva. Quella gallina cominciava a fargli orrore: gli ricordava i corpi umani dilaniati dalle mine.
Era sul punto di lasciar perdere, quando aveva sentito odore di fumo. Aveva controllato dietro il muro di un edificio sventrato e aveva trovato un piccolo cratere ancora fumante, per l’esplosione di qualche ordigno. Nella buca c’era un piccolo fuoco dove bruciavano foglie, erba secca e una pigna. Ad Anton era venuta un’idea. Gli era tornato in mente il forno della stufa.
Aveva alimentato il fuoco, per renderlo più vivace, con aghi di pino e ramoscelli secchi. Al centro aveva disposto un letto di sassi per adagiarvi il pollo, cercando di tenere accese le braci intorno. Mentre la sua preda iniziava ad arrostire, Anton era andato alla ricerca dell’acqua, tra le mura mezzo diroccate dello stabile. Nella sua caccia forsennata alla gallina, si era schizzato di sangue tutta la divisa, già imbrattata di fango e maleodorante.
Si era denudato e aveva infilato gli indumenti in un secchio colmo di acqua piovana. Si era rivestito con una tuta azzurra, con righe gialle, che aveva trovato tra le macerie.
Dopo aver lasciato il peso della divisa, con tutto il carico di terra, di sudiciume e di sudore freddo provocato dalla paura, che avevano intriso il tessuto. Anton si era sentito subito meglio. Aveva la sensazione di essersi liberato di una zavorra. Si era seduto sul pavimento, con le spalle al muro, ed era crollato in un sonno profondo e prolungato. Quando aveva riaperto gli occhi si era ricordato del pollo. L’aveva trovato mezzo bruciato sotto e completamente crudo sopra. Subito dopo, cercando di recuperare qualche piccola parte di carne ben cotta, aveva sentito uno strano sapore e una puzza insopportabile. Era l’odore delle interiora, che si era dimenticato di asportare. A quel punto Anton aveva scagliato il pollo dentro il fosso ed era ricaduto in preda ai morsi della fame.
Aveva girato e rigirato intorno e dentro l’edificio, nella speranza di trovare qualcosa di commestibile. L’unico albero nelle vicinanze era un vecchio pino alto e grosso. Anton si era fermato ad osservarlo, illudendosi di trovare qualche nido con le uova o i pulcini dentro. Se almeno avesse avuto un po’ d’acqua potabile per dissetarsi. L’acqua oleosa e sporca depositata in un barattolo arrugginito del cortile, non era bevibile. Piuttosto avrebbe preferito bere la sua urina, ma… senza bere non riusciva a orinare. A un tratto gli era parso di sentire un rumore dentro l’edificio. Era sicuro che fosse vuoto, lo aveva perlustrato in lungo e in largo. Il suo fucile era rimasto sul pavimento. Per un attimo aveva temuto che qualcuno potesse puntarglielo contro. Subito dopo aveva sentito un miagolio. Dentro il cassetto di un tavolo, rovesciato contro il muro, c’era una gatta color miele, con una nidiata di gattini appena nati.
Anton si era intenerito. In casa sua e nel paese dove abitava, tutti amavano i gatti. Per nutrirli, tante volte Anton aveva rinunciato a una parte della zuppa, pietanza unica, sei giorni su sette. La sua fame era tale che, se avesse potuto, avrebbe sottratto lui, in quel momento, il latte a quei gattini, succhiando direttamente dalla madre.
Mentre li osservava con tenerezza, aveva scacciato dalla sua mente un pensiero insano. Non osava neppure immaginarlo di arrivare al punto di doversi cibare della carne di quel felino. I suoi compagni gli avevano raccontato che, durante una battaglia di molti anni prima, non solo venivano razziati i gatti per uso alimentare, ma qualcuno si era spinto anche molto oltre, sfamandosi con i cadaveri delle vittime.
In quel momento Anton aveva visto tutto annebbiato, poi più niente. Era caduto per terra, svenuto.
Quando aveva riaperto gli occhi si era ritrovato in un letto, al caldo, con la testa fasciata: cadendo si era procurato una ferita.
Sergey, un giovane, suo coetaneo, era andato a cercare legna, lo aveva trovato e lo aveva portato in casa sua, trasportandolo con la carriola. Inizialmente non aveva capito che Anton fosse un soldato nemico. Lo aveva sfamato, poi avevano scoperto di essere lontani parenti. Quando ormai era chiaro che Anton era stato reclutato per aggredire il suo popolo, erano già diventati amici: amici per la pelle di Anton, salva, che li avrebbe legati a vita.
Era salva anche la gatta con i suoi gattini, che Sergey era andato a recuperare poco più tardi. Anton Kotov, rivedendoli, aveva provato un grande sollievo. Se fosse stato costretto a cibarsene, sarebbe stato Anton Gatti (Kotov) mangia gatti: un atto di cannibalismo.
Avete messo Mi Piace4 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Le vittime non hanno bandiere. I giovani vengono trascinati nei giochi di potere altrui, ogni guerra poggia le basi sulla povertà e l’inconsapevolezza. L’umanità, per fortuna, sopravvive grazie a tutti gli Anton e ai Sergey di questo mondo.
Sono d’ accordo con te Mjcol. La triste realta` dei giochi di potere, difficili da contrastare, e` questa. Possiamo soltanto sperare nel coraggio e nella buona volonta` delle persone che hanno una coscienza e una sensibilita` umana, per arginare i danni. Molti, da una parte e dall’ altra della barricata, oggi come ieri, sono riusciti a limitare la distruzione e tutti i massacri provocati da una guerra.
Sei stata molto brava a descrivere il lato poco “eroico” di una squallida “operazione militare speciale”. Al netto della propaganda martellante ecco quello che resta: dolore, istinto di sopravvivenza, odio, miseria materiale ed interiore e qualche barlume di umanità.
Grazie Fabius. Le mie modeste narrazioni sulla guerra che riguarda tutti noi, umanamente, economicamente e moralmente, oltre la solita passione per la scrittura, hanno anche una lieve funzione ansiolitica; pero´ dura poco; quindi ora dovro´ scrivere ancora.
Grazie Carlo. Ho voluto cimentarmi in un tema molto piu´ grande di me. Neppure i piu´ grandi opinionisti hanno la verita´ in tasca, (soprattutto sul come e sul quando finira´). Uno dei motivi principali che mi spinge a immedesimarmi e a scriverne e´ dovuto al pensiero delle vittime civili e non, insieme alla speranza (o illusione), di una tregua vera e di un accordo di pace, che sono diventati quasi un chiodo fisso.
Molto bello anche questo racconto. Non facile provare ad immedesimarsi in un personaggio del genere, ma penso che ci sia riuscita bene perché ho provato pietà e tenerezza verso Anton. Ci fossero molti più Anton tra le file russe…comunque descrizioni molto accurate e curiosità particolari che rendono il racconto molto familiare e suggestivo. Bello.