Assordante come il frinire delle cicale – parte 2

Serie: Assordante come il frinire delle cicale


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Una donna ritorna nella casa che è stata della sua famiglia, poco prima che questa venga demolita.

Agata si sforzò di tornare al presente, guardandosi attorno e cercando in ogni angolo un frammento del passato. Sapeva di essere sola, eppure provava quella sensazione inspiegabile di essere osservata.

La Casa non era come le altre: un respiro ritmico, regolare pervadeva ogni ambiente. Le sue stanze sembravano possedere un’anima tinta di grigio: non quello della noia o del piattume, bensì il colore vero e proprio che la caratterizzava in ogni sua parte, dal calcestruzzo all’intonaco, per finire con le inferriate. Solida e imponente, costruita in una posizione favorevole a metà fra il paese e le fornaci di mattoni, ammirava dalle finestre rivolte a est il monte dietro cui moriva il sole, lasciandosi sommergere dal piacevole calore pomeridiano. Il ricordo tornò ai momenti dell’infanzia quando, oltre le verande in vetro azzurro, la Casa si apriva sul cortile circondato dal grande parco, presenza silenziosa fatta di alberi secolari e coperta da un manto senza fine di aghi di pino. Al di là si poteva accedere a un orto fino a giungere a una sorgiva di acqua naturale che delimitava la proprietà. Agata ci andava con la nonna e gli altri bimbi per riempire le bottiglie di vetro colorato, fiera di rendersi utile e proprio per questo stupita di divertirsi sempre un mondo. Le rane vi cantavano nelle sere d’estate, cercando di sovrastare il frinire delle cicale che era tanto assordante da obbligare la nonna a uscire per spaventarle. La donna muoveva il grembiule agitando le braccia in un gesto inutile che a nulla serviva se non ottenere un effimero silenzio, breve quanto il tempo di voltare le spalle.

Agata si avvicinò a una delle finestre e, smuovendola un po’, riuscì ad aprirla. L’aria fresca del mattino riempì la stanza, portando con sé il profumo dei pini. Lei chiuse gli occhi e inspirò a lungo, con le mani strette alle inferriate e lo sguardo perso in ciò che rimaneva del parco.

L’erba era stata rimossa e alcuni alberi abbattuti. I macchinari sostavano in attesa di venire utilizzati per la demolizione. C’erano persone che si aggiravano ispezionando il terreno e qualcuno la notò additandola con preoccupazione. Lei fece un cenno con la mano e regalò il suo sorriso come a dire che andava tutto bene e che le lasciassero il tempo necessario.

Provò il desiderio improvviso di togliersi le scarpe e correre ancora su quell’erba pungente, inciampando nelle radici che spuntavano ovunque, per riprendersi ciò che le apparteneva. Si tuffò nuovamente nei ricordi della sua infanzia e si rivide bambina mentre giocava a nascondino con i cugini fra le fronde dei pini che offrivano rifugi meravigliosi oppure nel buio della rimessa della legna, quell’antro in fondo al cortile dove solo i più coraggiosi entravano poiché laggiù, i bimbi si raccontavano in segreto, si nascondevano gli assassini di Pinocchio.

Attigua alla rimessa, sotto i rami di un salice, si trovava la casa del custode, abbandonata quando lei era ancora bambina, allorché la situazione economica già non permetteva più i lussi di un tempo. Agata vi entrò e, percorrendo lo stretto corridoio di fitte ragnatele, giunse alla camera da letto. Lì assistette a una scena magica e inquietante: il mobilio dell’epoca si mostrava intatto, quasi fosse emerso dal tappeto di foglie che copriva il pavimento. Nella penombra spiccava, tra il letto e un calendario a parete fermo sull’anno 1964, il mese di agosto, un grande specchio la cui superficie, venata da una miriade di punti neri, le restituiva il riflesso di una sagoma oscura, irriconoscibile. Nulla in quel profilo le ricordava sé stessa, mentre ben riconoscibile era l’impronta, indelebile come il peccato originale, della famiglia di un tempo.

D’improvviso colse un movimento sulla parete: un gigantesco ragno si muoveva all’ingiù. Trattenne il respiro, terrorizzata com’era da quegli esseri spietati che, dopo aver teso la trappola, finivano poco a poco la loro preda lasciando a questa tutto il tempo di sentir svanire la vita, nel più silenzioso e lento dei drammi. Agata ne seguì il movimento, fino a perderne le tracce dietro le vecchie tende verdi, poi si catapultò fuori, dove l’aria fresca le regalò un sollievo inaspettato, che sembrò in grado di scacciare l’inquietudine. Forse per questo ci mise un po’ a rendersi conto del braccio che sporgeva dal fusto del grande pino, proprio a ridosso dei confini del parco.

Lui, seduto di schiena sul tronco, non disse nulla quando Agata gli comparve di fronte, incredula, incapace di fare un solo movimento sui piedi ancora nudi.

«Papà…»

«Agata! Non ti aspettavo. Cos’hai, sembra che tu abbia visto un fantasma».

«Io… Sono tornata a vedere la Casa. Ma tu?»

«Io non me ne sono mai andato. Sai, c’è voluta una vita intera per capire».

«Capire cosa, papà?»

«Il tuo sguardo. Ricordo sempre quel giorno, era un martedì, quando mi parlasti. Avevamo appena finito di pranzare e la mamma si trovava in cucina. La mamma… Sono riuscito a rendere infelice anche lei!»

Agata sentì un brivido freddo percorrerle la schiena. Sì affrettò a balbettare qualcosa.

«Papà, ero una ragazzina e tu stavi sempre fuori, lontano, per il tuo lavoro».

Lui sorrise come non faceva mai.

«E lo sei ancora, sai? Siediti accanto a me».

Le accarezzò il viso nello stesso istante in cui lei si abbassò verso l’erba.

«Avevi ragione, amore mio. A volte bisogna accettare di morire per poter nascere ancora ed essere differente. Migliore. Per questo ho deciso di restare e, sotto quest’albero, vivere quell’attimo ogni giorno, come in un eterno ritorno».

«Ti prego… Papà!»

«Agata, ho mancato come nessun padre dovrebbe mai fare. Me lo urlasti quella sera, quando le tue domande mi trafissero come proiettili. Piangevi e al tempo stesso imploravi, con la rabbia di chi ama e non chiede che amore.»

Agata sbottò in un violento singulto ma riuscì, con fatica, a controllarsi. Lui continuò.

«Ho trovato la mia pace qui, sotto queste fronde. E se è vero che non si può tornare indietro, quella stessa sera il mondo è cambiato per sempre… Tu hai occupato il posto che meritavi nel mio cuore».

Agata gli strinse il volto tra le mani, che si tinsero presto di un rosso vivo, come in un contrappasso. Abbracciò disperata il genitore, ormai senza vita. Poi si staccò, indietreggiando e scuotendo il capo. Iniziò a correre all’impazzata verso la Casa, la sua camicetta imbrattata di sangue, il respiro ansimante.

Una volta dentro, si ritrovò immersa in uno dei tanti pranzi domenicali. Rivide la nonna in cucina intenta a cuocere il pasto sulla vecchia stufa a legna; rivide la mamma, figlia di fornai, occhi azzurri che Agata non aveva ereditato. Bella e dolce, affaccendata dietro all’anziana che la scansava come fosse una poco di buono, mai all’altezza del figlio. Il nonno che, seduto al tavolo, rompeva una tazza di porcellana in uno scatto d’ira così violento da aprirne una crepa su tutta la lunghezza. I parenti che oziavano in attesa, consapevoli della propria posizione sociale, bravi nel sostenere conversazione ma pessimi di carattere per l’imprinting ricevuto dalla famiglia.

L’ultima immagine fu quella del suo amato fratellino, dolce spina nel cuore di lei madre bambina, mentre correva nella cucina con una macchinina in mano.

Siete l’unica cosa bella che ho, disse la mamma abbracciando il piccolo, lo sguardo che cercava gli occhi della figlia.

Agata si mosse verso di loro per afferrare quel ricordo che improvvisamente svanì davanti ai suoi occhi e lei si ritrovò nuovamente sola. Corse fuori e fuggì davanti all’espressione sorpresa dei muratori, senza voltarsi a guardare la Casa. Solamente dopo molti metri percorsi, sentì il dolore che le provocava fitte fino alle ginocchia e si accorse di essere ancora scalza. Si accasciò cercando il respiro e attese attimi eterni prima di riuscire ad alzarsi. Il sangue scorreva da alcune ferite provocate dai sassi sull’asfalto. Lo toccò e vide che era rosso come quello di suo padre.

Sentì che la Casa la richiamava indietro, come un antro segreto delle nostre vite dove canta senza fine un lamento d’amore. Agata decise di proseguire.

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Avete messo Mi Piace6 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. “Agata sbottò in un violento singulto ma riuscì, con fatica, a controllarsi”
    ❤️ Avevo letto qualche tuo racconto. Non mi sono mai soffermato a commentare (dovrei farlo più spesso), al di la dei complimenti, mi piace molto la parola singulto.👏

    1. Grazie Giuseppe, sei molto gentile☺️ Sappi che ogni segno del tuo passaggio sarà sempre gradito, positivo o negativo che sia mi aiuterà a crescere e che aspetto volentieri qualcosa di tuo. A presto

  2. Il passato cui siamo legati porta con sè momenti felici ed altri terribili. Se , nella prima parte del racconto, questa casa mi era parsa accogliente e piena di calore, nella seconda mi ha comunicato tutto il dolore della protagonista rivelando il motivo che l’ha spinta ad allontanarsi e a cercare il pretesto per vivere con la valigia in mano. Un racconto molto intimo, bellissimo.

    1. Grazie Micol. Questo racconto ha il senso di essere liberatorio da un passato che non posso definitivamente lasciarmi alle spalle perché fa parte di me e mi ha formata. Posso però tirare e srotolare il mio filo finché ce n’è. Un abbraccio

  3. ho dovuto assolutamente leggere anche le seconda parte: molto bello, Cristiana, appoggiato pericolosamente sul filo di una memoria talmente intensa da prendere corpo. Dolore e senso di appartenenza, desiderio di tornare piccola e di andarsene via: oggi – ma non solo da oggi- tendiamo a pensare che l’importante sia “andare avanti”. Ma non lo so, non lo so.

    1. Mi conforta il fatto che ti sia approcciata anche alla seconda parte del ricordo. Significa che in un certo modo sono riuscita a tenere vivo l’interesse. Non è semplice quando mancano l’azione e i dialoghi e prevale invece la narrazione. Grazie

  4. Ciao Cristiana, ogni volta che scrivi qualcosa contravvengo sempre al mio indirizzo maniacale di leggere i racconti in ordine di pubblicazione. Come al solito, disattendere questa regola senza senso mi porta qualcosa di eccezionalmente buono.

  5. Man mano che leggevo mi sono chiesto: “si, ok, il nonno e la nonna, ma i genitori?” Appaiono così, come in certe scene cinematografiche dove i ricordi prendono vita e diventano reali, quasi che la mente del protagonista sia disturbata dalle sue sofferenze del passato.
    Ancora una bella prova la tua, in uno stile che mi è sembrato un po’ diverso dal solito.
    Poi, per pura coincidenza, mia nonna era del 1915 anche lei 🙂

    1. Ciao Francesco e grazie per il commento che, come spesso accade con te, mi permette di fare una puntualizzazione. Questo particolare racconto ha avuto bisogno di un editing attento e minuzioso che ha permesso di livellare luci e ombre, di mettere in risalto alcune idee e piuttosto smorzarne altre che avrebbero appesantito il testo. In questo specifico caso, si tratta realmente di una sorta di mix di due stili che si sono incontrati e messi a confronto. Spero che il risultato possa risultare gradevole. Grazie per la tua lettura sempre attentissima. Un abbraccio

  6. “Agata si avvicinò a una delle finestre e, smuovendola un po’, riuscì ad aprirla. L’aria fresca del mattino riempì la stanza, portando con sé il profumo dei pini. Lei chiuse gli occhi e inspirò a lungo…”
    Cosa c’ e` di meglio dell’ aria fresca del mattino, dell’odore di resina sui tronchi e del profumo degli aghi di pino che purificano l’ aria? Se poi c’e anche l’ odore dell’ erba appena tagliata, e` un piacere immenso per i sensi, si apre il respiro e affiorano i ricordi.

  7. Saranno stati i nonni … sarà stata la scena del padre, saranno stati i ricordi d’infanzia, la casa che sta per essere distrutta … sarò io il problema visto che sono in sessione e mi viene già da piangere così … ma il risultato è stato che veramente mi sono commossa.

    Bellissimo davvero … un viaggio nel ricordo di ciò che non tornerà più, infanzia ❣️❣️❣️❣️

    1. Certo che non tornerà più. Segue la linea della vita che a sua volta è inesorabilmente legata al tempo che scorre. Noi però abbiamo il potere di fermare un ricordo nelle mai. La forma d’arte serve a questo. Un dipinto, una fotografia, un testo e molto altro ancora. Grazie Lola che ti sei un po’ commossa insieme a me.

  8. La casa della mia famiglia materna, antica di più di cent’anni, nel centro della cittadina dove sono nato, mi dà sempre ricordi simili.
    Non ci ho vissuto la mia vita, ma ci andavo ad abitare ogni estate ed era lì che incontravo i miei nonni, zii, cugini… per tanti motivi era la casa della famiglia. Ora è vuota, in attesa di non so bene cosa.

  9. “si mosse verso di loro per afferrare quel ricordo che improvvisamente svanì davanti ai suoi occhi e lei si ritrovò nuovamente sola”
    Il senso di tutto.
    I ricordi sono la nostra radice ed il nostro dolore. Ci forgiano e ci torturano, ci sostengono e ci abbattono. Ma sono noi.