Benvenuti al manicomio – parte 1
«Benvenuti al manicomio, gente!» l’altoparlante aveva gracchiato un po’ «Un’altra splendida giornata nella struttura psichiatrica più accogliente che possiate mai desiderare.»
La trasmissione proviene da una stanzetta con le sbarre alla finestra, dove un groviglio di cavi attornia una scrivania; sopra, due microfoni e marchingegni elettronici con spie e lancette che si muovono all’unisono con la voce dell’annunciatore.
Fernando Chavez ha trent’anni e un cespuglio di capelli che non vuole saperne di stare al suo posto. Il dottor Molteni lo aveva in cura, ma ha scoperto in lui ben altre doti.
Il nosocomio si raggiunge salendo una stradina che s’inerpica su un promontorio a pochi chilometri dal mare. In origine destinato al ricovero dei tisici: coloro che contraevano la malattia che nell’Antico Testamento colpiva gli ebrei che si allontanavano da Dio, fu riconvertito per ospitare i matti, ché dalla grande guerra ce n’era in gran numero. Di guerra, poi, ce n’era stata anche un’altra. I malati di mente non accennavano a diminuire, dentro o fuori le mura del centro psichiatrico.
«Il signor Carlucci mi ha fermato in cortile, ancora» dice Taddeo Pavan, assistente e amico del dottor Molteni «continua a ripetere che lui non è matto, è solo stanco.»
Francesco Maria Molteni, direttore sanitario, lo ascolta paziente, si accende una sigaretta e fa un paio di tiri prima di rispondere: «E forse ha ragione lui.»
«Ma Francesco, Carlucci l’hanno portato qui in preda a uno stato allucinatorio.»
«Gli ho parlato anch’io, Taddeo, mi ha chiesto aiuto. È critico nei confronti dei suoi deliri, e per lo più è lucido, anche se spossato e non riesce a trovare la forza di reagire, non credo che sia demente».
«Forse, potremmo provare quel nuovo farmaco, l’iproniazide…»
«Di fatti, e lasciamogli un po’ di tempo; pensa tu alla prescrizione da lasciare alla caposala.»
«Forza dormiglioni! Giù dalle brande e tutti in refettorio per la colazione. E non dimenticate, prima, di fermarvi al gabinetto per pisciare… Intanto, vi regalo una bella canzone per allietare il vostro risveglio.» Doris Day intona Que sera, sera.
Il dottor Taddeo Pavan, con un gesto ripetuto, si liscia il pizzetto. «Fernando non ha freni inibitori, sei sempre convinto che sia una buona idea lasciargli quel microfono in mano?»
«Da che gli ho chiesto di accompagnare le giornate dei nostri ospiti, è riuscito a fare alzare dal letto persone che non si muovevano da mesi, non mi interessa come lo fa, ma solo che ci riesca.»
«Abbiamo già avuto un richiamo perché abbiamo smesso di praticare l’elettroshock e i bagni terapeutici, se si spargesse la voce che un paziente fa dell’intrattenimento…»
«Non ti preoccupare, Taddeo, la responsabilità è solo mia. E Fernando è… era un disadattato, non certo un matto, quella malata è la società che l’aveva ridotto così. Quanto alle scelte terapeutiche, poi, se qualcuno dotato di galloni volesse provare di persona un trattamento elettroconvulsivante, sarei premurato di somministrarglielo.»
«Rischi la tua carriera, lo sai, vero?»
«Caro Taddeo, io so solo che qui ci sono persone che hanno bisogno di essere aiutate, non punite; in fin dei conti siamo a metà del ventesimo secolo, il medio evo dovrebbe essere finito da un pezzo, ma i malati di mente sembra che siano ancora posseduti da demoni, o peggio, incapaci cognitivamente per loro stessa scelta: questa è la vera pazzia!»
«So che hai ragione, Francesco, e ti stimo, ma non so dove trovi il tuo coraggio.»
«Dai che si lavora, lazzaroni! Ora che vi siete rifocillati con caffelatte e marmellata, c’è l’orto che vi aspetta, la squadra di manutenzione oggi deve riparare i serramenti, e in cucina una montagna di patate cerca qualcuno che la peli… vorrete mica il baccalà senza contorno.»
***
Nello studio del dottor Molteni, la contessa Dellisanti, moglie del ricco armatore navale, è a colloquio assieme alla figlia Clelia, accompagnate dall’educatrice di quest’ultima.
«Esimio dottore, come le avrà accennato mio zio, il vescovo, nella sua missiva, il problema della nostra Clelia è piuttosto delicato.»
La ragazza è seduta composta su una delle due poltroncine innanzi alla scrivania, lo sguardo rivolto a terra. La terza donna è in piedi, alle spalle della giovane, ha declinato l’offerta di una sedia che il dottore ha fatto portare da un inserviente.
«Da quanto ho letto, nell’epistola di vostro zio mi si chiede di internare vostra figlia… ha ventun anni, se ho ben inteso…»
«Appena compiuti, sì.»
«Ebbene, dicevo, mi si chiede di ricoverare questa giovane, ma non mi è ben chiaro il motivo. La lettera parla di comportamenti riprovevoli.»
«Ma certo dottore, proprio così. È afflitta da turbe che le inducono atteggiamenti inaccettabili; capirà bene, dottore, la nostra dimora è sovente visitata da dignitari, personalità di spicco, anche internazionali…»
«E quali sarebbero queste “manifestazioni sconvenienti”?»
La contessa si volta in direzione dell’educatrice, con un cenno del capo le cede la parola: «Non ha pudore alcuno, nonostante i migliori insegnamenti impartiti. Pensi dottore, che ha provato a circuire il figlio del sindaco, un trentenne savio e ben educato, con frasi lascive… un giorno, addirittura: s’aggirava nel parco della villa, non so se posso dirlo: col seno scoperto! mentre era in corso una visita dell’ambasciatore di Francia e la sua consorte.»
«Lei capisce, dottore» interviene la contessa «non possiamo permettere che accadano certe cose, è a rischio il buon nome della famiglia. La deve internare, anche per il suo bene, dopotutto.»
Molteni guarda la contessa con un’espressione seria, in realtà immagina il povero ambasciatore, costretto a vedere la bella Clelia col seno nudo nel parco della villa…
«Faremo il possibile, contessa» dice alla fine «vogliate far pervenire indumenti comodi e gli effetti personali di vostra figlia alla nostra segreteria. Ora, col vostro permesso, devo congedarmi poiché mi attende un giro di visite.» Fa chiamare l’infermiera per affidargli la giovane, quindi ossequia le signore. Clelia non si è mossa, il capo chino, pure quando la madre cinguetta un saluto e esce dallo studio.
«Tutti in branda, razza di tiratardi, per un altro giorno vi è andata bene e ricordate: il pitale è sotto al letto.»
Avete messo Mi Piace2 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Molto interessante questo tuo nuovo racconto. Mi sembra di capire che tu voglia dimostrare che la pazzia è relativa al momento storico: nel Medioevo, chi era controcorrente veniva considerato un indemoniato; fino a qualche decennio fa, pazzo; oggi è esuberante e magari in futuro sarà anche fuori moda? Una volta ho sentito che negli anni Sessanta una donna fu internata perché voleva semplicemente lavorare.
Prima parte che colpisce nel segno, con un incipit alla “Good Morning, Vietnam” e il prosieguo che via via porta dentro le mura… Poi entra la storia personale di Clelia.
Aspetto il seguito.