Bestemmia con le gambe
Mia madre si chiamava Irina. A volte veniva da Varna. A volte da Constanța. Dipendeva dalla faccia dell’uomo, o da quanto pagava per farsi raccontare una bugia tenera.
A quelli che le venivano dentro e la facevano godere, magari diceva la verità. A quelli che le chiedevano solo di parlare, dava sogni d’importazione.
Aveva la faccia spaccata come un marciapiede vecchio. Il culo ancora buono per cinquanta euro. Sessanta se non avevi fretta. Ottanta se fingevi di amarla.
Io sono nato a Milano. L’Est l’ho visto solo nelle rughe dei suoi occhi e nella vodka nascosta in bagno. Nelle musicassette bulgare usate per fermare il tavolo che traballava.
Una volta, da piccolo, mi fece trovare una candela a forma di Batman. Rideva. Io pure. Durò cinque minuti. Ma per anni, è stato il mio Natale.
A sedici anni le ho chiesto:
«Ma mio padre?»
Lei ha aspirato la sigaretta, lo sguardo buttato fuori dalla finestra come il fumo.
«In quel periodo scopavo protetta. Solo tre mi sono venuti dentro. Un camionista siciliano con la faccia da chierichetto. Un maresciallo coglione, con l’uccello piccolo. E uno triste. Con le mani nere e la macchina pulita. Di lui non ricordo la voce. Solo che aveva fretta. Come tutti.»
Poi ha sputato giù dal balcone.
«Forse sei un figlio. Forse solo una bestemmia lasciata a fermentare in pancia.»
E io, zitto, mi chiedevo: quanto vale una vita concepita per sbaglio? Un attimo di fretta. Uno sconto. Un niente.
A scuola mi chiamavano “figlio della troia”.
Ridevano.
Facevano versi da porno con la lingua.
Dicevano che mia madre prendeva meglio della fibra ottica.
Io restavo zitto. Ma dentro, ogni risata mi si piantava in gola come un tappo di vetro.
Una volta ho preso uno a testate. Gli ho rotto il naso. Due settimane a casa.
Gliel’ho detto. Lei mi ha abbracciato. Un gesto impacciato, storto, ma vivo.
«Hai fatto bene,» ha detto. «Tanto loro parlano. Ma non sanno un cazzo.»
A diciotto le facevo da palo.
Due angoli più in là. Una birra in mano. Lo sguardo dritto nel nulla.
I clienti arrivavano piano, sempre uguali.
Facce smunte, macchine coi finestrini rotti, puzza di solitudine messa in fila come banconote.
Qualcuno mi salutava. Pensava fossi il pappone. Qualcuno si sarebbe caricato anche me.
Io annuivo.
Aspettavo.
Quando finiva, lei si sedeva. Fumava.
«È la vita,» diceva.
Ma io pensavo: No.
Quella è la carcassa.
La vita è quello che ci hanno tolto prima che imparassimo a chiamarla così.
Una volta, uno le ha mollato uno schiaffo.
Io l’ho seguito. Gli ho spaccato il parabrezza con una spranga da baseball.
Poi sono scappato.
Lei mi ha trovato seduto per terra, col fiatone e le mani ancora calde di rabbia.
Ha acceso una sigaretta e ha detto:
«Lo faceva anche tuo padre, forse. Forse era lui. Ma tanto il dolore torna sempre. Ti trova anche se cambi casa.»
Poi ha riso.
Una risata rotta. Come se l’amore fosse stato un tumore benigno, tolto troppo tardi.
Adesso non c’è più.
Trovata in un fosso.
Gambe aperte, mani chiuse.
Senza documenti. Solo una borsetta vuota e la pioggia sulla faccia.
L’hanno raccolta come un sacco caduto dal camion.
Al funerale eravamo in tre: io, una sua amica ucraina, e un tizio con una croce storta come la sua schiena.
Il prete lesse due frasi distorte in latino. La voce gli tremava, come se nemmeno lui ci credesse più. L’amica piangeva piano. Il vecchio tossiva. Io fissavo la bara. E pensavo solo a quando lei si incazzava perché bruciavo il sugo.
Le ho scritto una lettera.
Gliel’ho infilata nel reggiseno, accanto al seno molle.
Sei stata mia madre, mia sorella, la mia vergogna e la mia schiena. Ti ho voluto bene anche quando puzzavi di sperma, ammoniaca e sogni che non si svegliavano mai.
E se c’è un Dio — che almeno sappia leccare il dolore, come facevi tu coi lividi che non ti chiedevo di vedere.
Poi ho sputato nella fossa.
Non per odio.
Per non portarmi tutto dentro.
E me ne sono andato a bere, con la gola in fiamme e il cuore duro come un pugno chiuso da troppo tempo. E per la prima volta, ho pensato: se avrò una figlia, la chiamerò Irina. Così, ogni volta che urlerò il suo nome, Dio si ricorderà com’è fatta una bestemmia quando ama.
Avete messo Mi Piace3 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Un pezzo bellissimo. Scrivi davvero bene, complimenti.
Un bellissimo brano. Bravo davvero. Hai gestito bene, a mio avviso, un punto di vista difficile e per collegarmi al commento di Antonio, le emozioni arrivano forti. Una lettura triste, ma intensa, che fa aprire uno sguardo su un mondo sommerso, di persone che comunemente conducono una vita da invisibili. Grazie per la bella lettura
Grazie di cuore. Cerco di dare voce a chi spesso viene lasciato indietro, ai cosiddetti “perdenti”. Sapere che le emozioni sono arrivate è per me una conferma preziosa, che mi dà fiducia nel continuare a scrivere. Grazie davvero per averlo colto.
“Io sono nato a Milano. L’Est l’ho visto solo nelle rughe dei suoi occhi e nella vodka nascosta in bagno.”
Non c’era modo migliore per descrivere il personaggio e la sua vita!
Potente. E’ la prima cosa a cui ho pensato durante la lettura del tuo brano.
Grazie, davvero. Sapere che la prima cosa che ti è venuta in mente è stata “potente” mi dà speranza. Quando scrivo, cerco sempre, anche solo in parte, di arrivare a chi legge. Sapere che qualcosa è passato mi incoraggia ad andare avanti.
E a chi legge ci sei arrivato, senza dubbio: è passato anche “qualcosa di più” di qualcosa…
Buona domenica!
Mi piace molto come riesci a mettere eleganza anche nelle parole più scomode.
Apprezzo molto. Era uno dei miei timori: riuscire a parlare di certi temi senza forzare o risultare pesante. Se è arrivata eleganza, allora qualcosa ha funzionato.