
Blackout a Villa Orsini
Villa Orsini incombeva sul promontorio come un monito di pietra. Era la notte del quarantesimo compleanno di Lorenzo, l’ultimo erede di una dinastia di armatori liguri, e gli invitati avevano ormai riempito il salone affrescato quando il temporale spense la luce elettrica.
Nel buio risuonarono un tonfo secco e un grido soffocato. Quando l’impianto di emergenza si attivò, Lorenzo giaceva ai piedi della scala principale, il capo reclinato in un angolo innaturale.
Il commissario Elena Ferri arrivò mezz’ora dopo, con l’impermeabile intriso di pioggia. «Nessuno deve lasciare la villa», ordinò. Gli ospiti, ancora scossi, furono radunati nel salone. Elena colse sguardi che si evitavano, labbra serrate più del necessario: il clima perfetto perché la verità restasse nascosta.
Si avvicinò a Chiara, la moglie di Lorenzo, pallida ma composta. «Signora, suo marito aveva nemici?»
«In famiglia gli affari sono sempre stati… tesi», rispose Chiara. «Ma Lorenzo era rispettato.»
Elena notò un tremito nelle sue mani sottili e registrò mentalmente quel dettaglio. Poi chiamò Andrea Rinaldi, socio storico della compagnia.
«Eravamo in salone quando è mancata la luce», spiegò l’uomo, la voce roca per il fumo di sigaro. «Ho sentito il colpo, ho corso verso la scala e l’ho visto a terra.»
«Ha toccato il corpo?» chiese Elena.
«No, commissario. Ho solo… urlato aiuto.»
L’ispettrice Giada Conti consegnò a Elena il primo rapporto: sull’ultimo gradino si trovavano tracce di vernice fresca, una macchia minuscola ma nitida. Gli invitati confermarono che nel pomeriggio un restauratore aveva ritoccato la balaustra. Forse Lorenzo era scivolato? Un incidente? Elena non era convinta.
Esaminò la scena: l’ordinata disposizione dei mobili, il calore dei lampadari d’emergenza, il profumo di cera. Tutto suggeriva eleganza; solo Lorenzo, in quell’angolo, rompeva l’armonia. Controllò le scarpe lucide della vittima: nessun segno di urto laterale, ma la suola destra mostrava una striscia di cera che non coincideva col gradino. Qualcuno lo aveva spinto?
Radunò di nuovo i presenti. «Serve il vostro aiuto», dichiarò. «Racconterete esattamente dove eravate al momento del blackout.»
Il primo a parlare fu Marco, il cugino minore di Lorenzo. «Ero nella biblioteca con mia sorella. Stavamo cercando un libro.»
«Biblioteca al pianterreno o al primo piano?» incalzò Elena.
«Al primo piano.»
«Allora siete passati davanti alla scala poco prima del blackout.»
Marco deglutì. «Sì, ma non abbiamo visto Lorenzo.»
Toccò a Silvia, la sorella maggiore della vittima. «Ero con Chiara nella veranda. Discutavamo dei preparativi per il viaggio a New York.»
Chiara annuì, ma Elena percepì una minima esitazione. Decise di sospendere l’interrogatorio in attesa dei rilievi.
Giada tornò con una novità: sulla balaustra, a metà rampa, era impressa un’impronta digitale in vernice fresca. Corroborava l’ipotesi di uno spintone. Elena ordinò di prelevare le impronte di tutti.
Nel frattempo esplorò la biblioteca. Lì trovò un fiasco di vino aperto e due calici: uno appena assaggiato, l’altro vuoto. Sul tavolo un foglio accartocciato: una bozza di testamento revocato la settimana prima. Nel nuovo documento Lorenzo destinava il controllo dell’azienda esclusivamente a Chiara. Motivo sufficiente per un delitto.
Ma qualcosa non tornava. Chiara, se fosse stata l’autrice, avrebbe avuto bisogno di un complice per fingere il blackout, e la cabina elettrica si trovava nel seminterrato, chiusa a chiave.
Rientrata in salone, Elena ricevette il confronto delle impronte: l’unica compatibile con quella sulla balaustra apparteneva ad Andrea Rinaldi.
«È possibile, mi sono appoggiato mentre cercavo di capire dov’era Lorenzo», balbettò lui.
«L’impronta è in vernice fresca», obiettò Elena. «Si è appoggiato dopo la caduta?»
Andrea cambiò colore. «Forse… non ricordo.»
Elena chiese un colloquio privato con Chiara. «Lei conosce i debiti di Andrea, vero?»
«Sì», confessò la donna. «Mio marito minacciava di estrometterlo. Andrea ha perso tutto al gioco.»
«Dunque un movente c’era», osservò Elena. «Ma perché modificare il testamento in suo favore e poi ucciderlo?»
Chiara abbassò lo sguardo. «Non lo so, commissario.»
Giada interruppe la discussione: l’unico duplicato della chiave del seminterrato era sparito. Il pomeriggio Marco era stato visto vicino alla guardiola del custode.
Elena convocò il giovane. «Perché hai preso la chiave?»
Marco tremava. «Non l’ho presa. Cercavo un parasole, nient’altro.»
«Qualcuno può confermare?»
«No.»
Il cerchio si stringeva, ma Elena sentiva che il colpevole era ancora un passo avanti. Tornò sulla scala, rivivendo la scena: Lorenzo scende, buio, una spinta. Il blackout crea panico e copre ogni rumore.
Esaminò di nuovo la balaustra: sotto la vernice fresca, una scheggiatura antica mostrava legno scuro. Perfetta per imprigionare una traccia. Fece sequestrare il cellulare di Andrea; tra i messaggi spuntò una conversazione con Marco: “Stasera non puoi tirarti indietro.” “È rischioso.” “Fallo e sarai libero.” Un’alleanza improvvisa.
Li mise a confronto. «Vi siete coperti a vicenda», dichiarò. «Andrea temeva di perdere tutto, Marco puntava alla direzione dell’azienda. Avete pianificato un incidente. Chi ha spinto?»
«Io ho staccato la corrente», sussurrò Marco. «Andrea era sulla scala.»
Andrea abbassò gli occhi. «Doveva sembrare una caduta.»
Chiara, ai margini della stanza, gemette piano.
Il temporale si esaurì all’alba, quando le manette scattarono. Elena osservò la luce che filtrava dagli archi della veranda: un altro giorno, un altro castello di menzogne crollato.
Prima di andarsene consegnò a Chiara il testamento. «Spetterà a lei decidere se depositarlo», disse.
La donna annuì, la voce un filo: «Grazie, commissario.»
Fuori, la pioggia aveva ripulito il vialetto. Elena inspirò l’odore salmastro del mare e salì in macchina. Motore.
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Ciao Giorgio. La lettura è stata piacevole, ma concordo con Paolo sul fatto che avrebbe necessitato di un respiro più ampio. Per come conduci bene i dialoghi, sarebbe stato bello arrivare alla fine e restare sulle spine, in attesa dell’episodio successivo 🙂
Presenti bene l’ambientazione e la scena del crimine. Tuttavia, ritengo che il racconto necessiti di uno spazio maggiore. Gli elementi delle indagini sono un po’ troppo repentini (il rilievo delle impronte, ad esempio), conseguentemente le intuizioni del commissario risultano poco credibili. Apri parlando di un salone gremito di gente, ma praticamente da subito le osservazioni della inquirente si orientano sui colpevoli. Infine, in uno spazio così contratto, non si possono approfondire le personalità dei vari personaggi. Proverei a estenderlo per dare respiro e i giusti tempi allo sviluppo, magari creando una variante che porti inizialmente a far cadere i sospetti su una persona diversa rispetto al reale assassino.
Va da sé che è puramente il mio parere. Grazie per la lettura