Borges, i bravi uomini e il non appartenerci
Serie: Tempo; affreschi
- Episodio 1: Luci e tremolio
- Episodio 2: Dipingere l’incolore
- Episodio 3: Aprile
- Episodio 4: Borges, i bravi uomini e il non appartenerci
STAGIONE 1
«Vedi» mi disse lui, mentre fissava un punto indefinito alle mie spalle e inarcava le sopracciglia, quasi avesse scorto qualche realtà di una stranezza e incomprensibilità tale che, per mezzo secondo, le parole gli si confusero sulla punta della lingua, facendolo leggermente balbettare, «Vedi, secondo me le brave persone sono quelle che piantano un albero, oggi, senza aspettarsi niente in cambio; sapendo cioè che i frutti di questa azione li potranno godere solo i loro figli, o i figli dei loro figli. Essere brave persone significa non chiedere niente in cambio; significa, in altre parole, fare ciò che facciamo avendo a cuore non il tornaconto del momento, il vantaggio immediato ed immediatamente esigibile, bensì quello di chi verrà dopo di noi, verso i quali abbiamo una sorta di obbligo morale».
Mentre pronunciava queste parole, ebbi una specie di sussulto interiore. Lui se ne accorse, immagino per via degli impercettibili movimenti che percorsero il mio viso, come se avessi subito una scossa, come se l’universo stesso avesse estemporaneamente iniettato stille della sua linfa sovrumana nei miei muscoli facciali, innervandoli di radiazioni mistiche. Che pensiero profondo, il suo; quanta verità in quelle parole. Lui si accorse, dicevo, di aver smosso qualcosa in me; così mi disse, usando una raffinatezza e un tatto che mi sorpresero, dimostrando il rispetto che nutriva verso il sottoscritto:
«Belle parole, vero? Mi sento in dovere di avvisarti, però, che non sono del tutto mie: sai, credo di avere lette in qualche libro di scritture buddhiste; oppure, chi se lo ricorda più? sono passati anni… Forse le ho lette in alcuni testi vedici. Sono belle parole, come ti dicevo: ma non posso arrogarmi il diritto di rivendicarne la paternità, non sarebbe la cosa giusta da fare. Io sono un messaggero: il poeta è morto millenni fa».
Tacque, quasi a voler soppesare l’effetto che la sua confessione aveva provocato sull’etere che ci circondava. Io assecondai questo silenzio, rimuginando su qualcosa che non riuscivo compiutamente ad afferrare; pensai, per attimi che mi sembrarono quasi interminabili, a quella pronta risposta che potesse consolare – e, al contempo, elogiare – il mio interlocutore. E la trovai, quella pronta e perfetta risposta, accatastata sopra tanti ricordi e impressioni che giacevano in un cantuccio della mia memoria. Si trattava di un pregevole ricordo letterario che, conservato com’era in antri polverosi di materia grigia ormai quasi del tutto inutilizzata, sembrava aver atteso finora quest’unico e irripetibile attimo per ardere in una lingua di fuoco e illuminare di sé l’universo.
«Devi sapere che il maestro Borges, in uno dei suoi scritti, parla della teoria dell’eterno ritorno tanto cara a Nietzsche – esordii così, se non ricordo male – poiché quest’ultimo se ne era attribuita in un certo senso la paternità. Tuttavia, il maestro argentino asserisce che l’operazione compiuta dal filosofo non fu del tutto corretta, almeno apparentemente. L’eterno ritorno, infatti, nasce in Grecia, durante l’epoca d’oro della filosofia: poteva esserne padre Democrito, con il suo atomismo? Non ricordo se Borges ci fornisce indicazioni in merito; ciò che ricordo, però, è che il maestro sudamericano, in uno slancio di umanità ed empatia, non se la sentì affatto di condannare Nietzsche per quello che, ingenuamente, può essere scambiato per un plagio, né tantomeno provò a sminuirlo. Infatti, dice Borges, se è vero che lo stesso Nietzsche su quella teoria ha riflettuto, studiato, pianto, provato finanche momenti di sublime terrore e smarrimento, chi siamo noi – posteri avulsi dal suo contesto e dalla sua sensibilità di poeta – per mettere in dubbio la di lui paternità dell’eterno ritorno? Gli incredibili sforzi intellettivi da lui compiuti ne fanno un autore e padre legittimo; tanto quanto, se non più, del buon Democrito, o chi per esso».
Volsi le spalle al mio interlocutore, che non disse nulla, lo sguardo chino a terra, perplesso, forse ammirato. Entrambi avevamo capito che non serviva aggiungere altro: quando l’opera è compiuta, la sola cosa che resta da fare è ritirarsi. Perciò, per me era tempo di accomiatarmi, e andare per la mia strada; per lui, parimenti, il momento era giunto, e il sole prossimo al tramonto.
Non ci vedemmo mai più; né tantomeno, ci vedemmo di nuovo prima di allora.
Serie: Tempo; affreschi
- Episodio 1: Luci e tremolio
- Episodio 2: Dipingere l’incolore
- Episodio 3: Aprile
- Episodio 4: Borges, i bravi uomini e il non appartenerci
Discussioni