Buona la quarta

Le tre donne – sedute sui gradini di accesso al bar – un po’ a voce alta e un po’ in silenzio, pensavano. Il loro rimuginare produceva più rumore delle parole dette a voce.

Betta attorcigliava nervosamente una ciocca dei suoi ricci, intorno al dito indice, come faceva da bambina, e sbuffava.

Susi rosicchiava le pellicine intorno alle unghie e sospirava e mugugnava in continuazione.

Ginetta succhiava mentine, una dopo l’altra, per addolcire il gusto amaro di fiele che sentiva in bocca. Di tanto in tanto, schioccava la lingua sul palato.

L’autobus sarebbe passato non prima di due ore. Il taxi era da escludere per il costo. L’autostop un po’ rischioso. E i cavalli del maneggio – ammesso che riuscissero a cavalcarli – erano, comunque, troppo distanti. Susi e Gi’, in tutta la loro vita, non erano salite una sola volta, neppure sul dorso di un cavallo a dondolo. O sul cavallino della giostra, per la sagra di sant’Isidoro. 

Proseguire a piedi, dopo il secondo furto della Porsche, con l’afa, i sandali rotti di Susi e i troppi chilometri ancora da percorrere, era impensabile. Ore e ore di cammino sotto il sole cocente, per tornare indietro a recuperare la Golf di Betta, sarebbe stato un supplizio, una penitenza che non pensavano di meritare.

«Pullman o autostop? Mettiamo ai voti» aveva proposto Ginetta. «A meno che… mio cugino…»

In quel preciso istante, dal suo cellulare, la solita canzone di Gigi D’Alessio.

«Pronto!?»

«Ciao Gine’. Quell’Argia scassata non te la posso portare. Sto tribulliando a boccidura (da morire). ‘Fisiu Collu si è streccato un dito con il mazzuollo. Al fratello ce lo hanno bogato, perché ha spifferato cose a un appuntato. M’anti lassau cumenti a unu truncu ‘e scova (Mi hanno lasciato come un bastone di scopa), a mundai su ferru ‘ecciu (a spazzare il ferro vecchio).»

«Ma quel ragazzo… coso… come si chiama?»

«Ma chi Lillu Bellu?»

«Si, Giglio, il ragazzo che aveva montato lo specchietto retrovisore della Porsche.»

«Manc’issu c’esti (non c’è neppure lui). Patìu a Portu Tundu

«A Porto Rotondo? In trasferta?»

«Ma calli trasferta. A si spassiai (a divertirsi). Esti totu ammacchiau (è impazzito), per quello che faceva Angioletto biddiu ‘e procu (ombellico di porco).

«Angioletto biddiu ‘e procu

«Eja. Là che faceva pure Lello, il polliziotto, quello un po’ lollone, con Lollita del Bosco. Capito mi hai?»

« Ma chi, Jacopo Cullin?»

«Eja, proprio quello lì, mì.»

«E quando ci sarà di nuovo?»

«Chi, Lollita del Bosco?»

«No. Giglio.»

«No du sciu (non lo so). Cussu e’picciocheddu e se lo accucca (se gli gira), se ne va pure in continente a tifare qualche partita di pallone de su Casteddu. Ci aveva unu muntoni di euri, prima di partire. Ci ha pure cumbidau il caffè a tutti,  quell’asuriu, scroccone.»

«Paga buona questo mese? Soldi in più?»

«A chi di essant’i’ liagasa in cu’ (che gli vengano le piaghe nel culo), altro che soldi in più. Quelli fanno i soldi a pabiasa e a nosus ce li danno sempre a stiddiusu (col contagocce) e a murrunjusu (brontolando). Nanta ca oi c’è crisi (dicono che oggi c’è crisi), ma crisi oggi o crisi crasi (o crisi domani), quelli però sono sempre cravati  in Sa Cardiga e Su Schironi, a mangiare aragoste e gamberoni, che gli venga un colpo alle coste e ai co… Scusa Gine’ – porca puttana – stavo per dire una parolaccia.

Non ti preoccupare Peppi’. Anche per quel rottame di Spider, non importa. Ormai non serve più. Lo scherzo che ti avevo detto…»

In quel momento il cellulare di Ginetta si era spento. Batteria scarica. Anche l’ultima opzione che le era venuta in mente, di chiedere a suo cugino se poteva andare a soccorrerle, era andato in fumo.

«Allora? Pullman o autostop?»

Betta non aveva alcuna intenzione di cuocersi il cervello, ferma sotto il sole. E neppure di farsi un sedere alla piastra sopra il cemento rovente.

«Autostop» aveva detto subito.«Andiamo a recuperare la mia Golf.»

Anche Susi e Gi’, all’idea di poter scorrazzare di nuovo in macchina coi capelli al vento, si erano subito ringalluzzite.

«Bene. Autostop all’unanimità.» aveva concluso Betta.

A quel punto le tre donne erano drizzate in piedi. Pronte a rimettersi in viaggio. Pancia in dentro e petto in fuori, armate di speranza e nuova grinta, verso la superstrada.

In quello stesso momento una brunetta con una macchina fotografica appesa al collo e uno zaino sulle spalle, era passata davanti a loro, balzando giù, veloce, dai gradini del bar.

«Scusa, ci daresti un passaggio?» aveva chiesto Betta, cogliendo la brunetta al balzo.

«Io vado a Berchidda per un servizio fotografico, e voi?»

Le altre si erano scambiate uno sguardo d’intesa. Tutto sommato la Golf di Betta poteva aspettare. Ancora un paio d’ ore di riposo, a beneficio del motore, del guidatore, poco smog e meno rumore.

Un colpo di fortuna incredibile. Berchidda: il festival jazz, col suono magico della tromba di Fresu, capace di incantare anche i cavalli, l’avrebbe rimessa in pace con se stessa e col mondo. Betta non aveva dubbi. Era quella la sua meta, che sognava di raggiungere da quando aveva compiuto diciotto anni. Era partita con quell’intento – pochi giorni prima – con l’aereo, poi l’incontro con Susi e Gi’, la strana disavventura e infine di nuovo on the road, sulla jeep della brunetta, col vento in faccia e una gran sete di libertà.

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Discussioni

  1. I due mondi stanno per entrare in collisione: non vedo l’ora!
    Quanto al dialetto, comprendo benissimo le sensazioni che hai vissuto da bambina: anche nella mia zona è una forma linguistica molto sentita, le persone, per gli atti comuni, hanno iniziato a parlare italiano solo da una trentina d’anni. Prima, se non sapevi il dialetto eri considerato uno “straniero”. Ricordo che quando ero piccola la mia migliore amica non lo parlava e tutti pensavano fosse snob: dieci anni dopo le cose si sono ribaltate, poi ancora e ancora fino ad oggi dove si tenta di rivalutare, giustamente, quelle che sono vere e proprie lingue.

    1. Ciao Micol, si, e` vero, quando ero piccola le persone intorno a me parlavano piu` in sardo che in italiano. Spesso era un linguaggio ibrido, un italiano molto pasticciato. Ora mi capita spesso di ripensare con nostalgia a certe espressioni dialettali intraducibili, che solo in pochi grandi vecchi sono ancora capaci di ricordare e di utilizzare, in una forma quasi pura. E` un patrimonio linguistico e culturale che non andrebbe perduto. Per apprendere la scrittura del sardo campidanese ho acquistato vari dizionari e mi diletto a imparare parole nuove e modi di dire particolari. Quest’ ultima serie di racconti nasce anche dall’esigenza di far conoscere qualche frammento di un grande scrigno culturale, che per me ha anche un valore affettivo.

  2. Ciò che più apprezzato di questo racconto è l’uso esteso del dialetto, o della lingua locale se si preferisce. L’ho apprezzato con un pizzico di nostalgia, perché qui dove vivo, a cavallo del confine svizzero, i dialetti si vanno perdendo, disciolti nella xenoglossia anglofona scambiata per modernità. Muoiono con i vecchi e i giovani, quando non lo ignorano, lo trovano degradante, antiquato, buono per i contadini al più. Eppure, di là dal confine, nel Ticino, lo parlano anche negli uffici pubblici. Lo so perché, come si può immaginare, si sconfina sovente, sia di là, sia di qua. Meriti un plauso a mio parere. I dialetti sono elementi identitari, non cose vecchie da seppellire. Ma è così. Io stesso, pur capendone perfettamente diversi tra quelli che si parlavano, ormai, qui, non lo parlo mai. Qualche frasetta qui e là, non di più. Ancora brava! E grazie.

    1. Grazie, grazie, grazie. Non avrei mai osato sperare in un apprezzamento e un incoraggiamento, ma soprattutto in una cosi` grande comprensione del mio modesto tentativo di valorizzare una lingua ricca e preziosa come la nostra. Una lingua antica, neolatina, che parlavano bene i miei nonni; mentre oggi si tende a dimenticarla. Io stessa, quando mia madre parlava in sardo con la mia mestra della scuola elementare, lrovavo un senso dj vergogna. Ora, invece, cerco di conoscere meglio questa nostra lingua madre per provare (nel mio piccolo), a diffonderla, con tanto orgoglio.

  3. Il sole cocente, l’estate, la Sardegna e la voglia di libertà. Ho sentito questi elementi nel tuo racconto. Non mi stancherei mai di leggere i tuoi testi. Le battute in sardo ci stanno sempre bene, rendono il racconto piú autentico. Complimenti

    1. Grazie Giglio, sono una sarda che ama la sua terra, nonostante ci siano tante cose che non funzionano. E mi piace la lingua campidanese, che cerco di conoscere piu` a fondo, nella forma originaria che solo pochi vecchi riescono ancora a parlare, senza le continue contaminazioni della lingua italiana. Sono ben lieta, quindi, se qualcuno apprezza i luoghi e una lingua a cui sono profondamente legata.
      Grazie Giglio, ciao.

  4. Maria Luisa, e che dire? Ho iniziato a ridere appena ho letto “a boccidura”. Un personaggio questo cugino! Voglio lo spin-off con lui protagonista!! E niente, veramente divertente anche questo episodio che non delude per niente le aspettative, anzi, ne crea delle altre! Al prossimo episodio!!

    1. Ciao Carlo, ero certa che nessun altro quanto te, avrebbe inteso, parola per parola, questo piccolo episodio. Il sardo campidanese o logudorese sono difficili da tradurre. La versione in italiano spesso non rende allo stesso modo, per questo ho dovuto escludere molte espressioni piu` ad effetto che pero`, tradotte letteralmente, sarebbero sembrate astruse.
      Ti ringrazio per questa condivisione linguistica e per il tuo consueto supporto.
      Aspetto un tuo nuovo racconto, bello e toccante.Una storia che faccia star bene te, attraverso la scrittura, e noi che la leggiamo. Ciao Carlo, un abbraccio.

  5. Che bella questa Sardegna che mi ricorda la California, oppure, per stare in casa, “Basilicata coast to coast”, ricordi? Bene, detto questo, le descrizioni sono così vivide che mi pareva di essere con loro. Il caldo, il mangiarsi le unghie, il sandalo rotto oppure i capelli al vento. Questo è proprio il nostro universo! Adesso aspetto, con la dovuta calma, che i tasselli del puzzle si ricompongano perché sono curiosa di scoprire i futuri intrecci. Con il sardo non ci vado a nozze, ma ho colto l’essenziale e mi sono divertita. Se vuoi, facciamo una traduzione nel mio dialetto che, a dirla tutta, è uno dei più “ostici”. Un abbraccio Maria Luisa.

    1. Meglio della California!! Qui non ci sono sparatorie, cibo più buono e mare più bello! 😉 Fa spaccare il sardo, soprattutto quello di Cagliari, è uno dei dialetti più divertenti! Certe cose, come in ogni dialetto, non rendono bene in italiano.

    2. Ciao Cristiana, mi piace l’ idea di un dialogo tra due o piu`persone che parlano due dialetti diversi, da cui possono nascere continui e divertenti malintesi. Potremmo farlo, pensiamoci.
      Questo episodio e` stato anche una prova. Dovrei ottimizzare l’ uso del sardo e valutare se sia il caso di preferire un linguaggio ibrido (italiano-sardo), piu` efficace per una comprensione immediata, senza la discontinuita`delle traduzioni, che possa apparire piu` bizzarro e quindi piu`umoristico per chiunque.
      Il tuo commento ha contribuito a indirizzarmi.
      Grazie, un abbraccio.

  6. Luisa, ma questo che sardo è? Quello che parlano a Cagliari, quello di Sassari, quello di Nuoro o quello di Oristano. So che sono molto diversi.
    Immagino che tu li conosca tutti. A me sembra una miscellanea… ma forse mi sbaglio.

    1. Ciao Sinapsi, non ti sbagli affatto. Quella che si puo` definire miscellanea noi qui lo chiamiamo italiano porcellino, quando si mischia il sardo con l’ italiano e ne viene fuori un linguaggio ibrido. Alcune espressioni che ho usato sono pero` in Campidanese, che varia nell’ uso di certi termini, anche da un paese all’ altro. Mi piacerebbe sapere se, comunque, hai potuto cogliere il senso dell’ intero dialogo, in ogni frase. Credo di si, altrimenti smentiresti il tuo pseudonimo.
      Ciao Sinapsi e grazie per le tue considerazioni.

  7. Ciao☺️se posso permettermi, l’idea è interessante ma le traduzioni fra parentesi che spezzano le frasi non sono una scelta ottimale, piuttosto potresti scrivere le battute in Italiano e lasciare giusto qualche parola sarda di facile comprensione oppure lasciarli così e poi mettere l’intera frase in italiano come nota a pie pagina, anche se la soluzione migliore è la seconda. Infine, scelta coraggiosa, potresti lasciarle così come sono e chi non le capisce si attacca, in fondo Il nome della rosa è pieno di frasi in latino🤷🏼‍♂️la domanda è: siamo noi Umberto Eco?

    1. Ciao, grazie, prima di tutto, per la tua attenzione, sin dalle prime ore del mattino. Non sai quanto ero combattuta tra le varie possibilita` di traduzione che anche tu mi hai suggerito. Le note a pie’ di pagina ho volute escluderle subito perche`, da lettrice, quando mi capita di trovare le spiegazioni in fondo alla pagina, perdo il segno e la lettura diventa piu` discontinua. Forse come dici tu, nello stile di Niffoi, sarebbe meglio ridurre al minimo le espressioni in sardo, senza traduzione, e sperare che si riesca comunque a cogliere il senso della frase. Provero` a migliorare il testo cercando di renderlo piu` facile da interpretare. Questo in realta` era un piccolo esperimento. Ho voluto osare con la piena consapevezza di non essere Umberto Eco. Grazie ancora per il prezioso commento e buona giornata.

    2. Ciao Maria Luisa. Sinceramente a tratti ho odiato profondamente Il nome della rosa ahahahah. Comunque ti capisco benissimo, la coprotagonista del romanzo breve a cui sto lavorando è una spagnola trapiantata in Italia e rendere bene una parlata mista è un macello. Buona scrittura 🙂