CANTIERE DI JAINAN il primo giorno

Serie: IL TRASFERTISTA


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Intraprendo il viaggio da Zibo a Shanghai. Incontro il capocantiere Franco e altri trasfertisti. Sono alloggiato in una fatiscente guest house della fabbrica cinese.

Insieme agli altri, lasciai la fatiscente guest house e, dopo una decina di minuti, il pulmino Iveco ci portò al poligono industriale, dove mi attendevano una squadra di lavoro e, con essa, le mie responsabilità.

Senza esitazioni l’ungherese Bela, il giapponese Satoshi e l’italiano Francesco si dileguarono in direzioni differenti, dove le macchine tessili erano in fase di montaggio e loro dovevano impartire chiare istruzioni al personale cinese per il loro montaggio.

Io seguii la scia del capocantiere che mi condusse al padiglione dove meccanicamente già montati c’erano i due macchinari che avrei dovuto collegare elettricamente.

Erano una WDS, acronimo di Warping Direct System e una rivinitrice; entrambe le macchine venivano utilizzate per la preparazione dei subbi, grossi cilindri colmi di fili da inviare poi ai relativi telai.

La prima macchina, lunga circa 80 metri, raccoglieva dalle calandre circa 1400 fili che, una volta stirati e termofissati venivano avvolti su un subbio.

La seconda, raccoglieva più subbi in modo da generarne uno molto più grosso che sarebbe poi stato inviato in ingresso al telaio per l’orditura.

Dopo un caffè liofilizzato, trangugiato nell’ufficio del capocantiere tra il fumo dell’ennesima Malboro, venne il momento della mia presentazione alla squadra di elettricisti che mi era stata assegnata.

Mi trovai così di fronte ad un plotone in divisa blu che, con una aria molto perplessa, con quegli occhietti a mandorla, mi fissavano mormorando sommessamente.

Seguirono poi dei «Ni hao! Ni hao!», «Hello! Hello!» e varie strette di mano: il ghiaccio fu rotto, ma dai loro sguardi avevo capito benissimo i loro pensieri.

Malgrado fosse davvero difficile attribuire l’età a un cinese, nella mia squadra c’erano tutti elettricisti rodati, tra i quaranta e i cinquant’anni, mentre io, con il viso ancora bagnato di latte, non sembravo affatto quello che si sarebbero aspettati di incontrare come loro responsabile.

Tra tutti spiccava, anche per altezza, il capo elettricisti che, per sua avversa natura, aveva sul volto stampato un sorriso beffardo.

Considerando la sua posizione formalmente subordinata alla mia, ma la mia lo era alla sua in termini d’esperienza, quel ghigno fisso mi sembrava un costante segnale di scherno.

Infatti, il povero spodestato Mr Lee, in qualche modo, doveva salvare il suo onore e per questo non perdeva occasione di colmare la mia inesperienza, facendosi largo tra ogni mio tentennamento sulle decisioni tecniche.

Per quella missione estera mi ero preparato a dovere, ma quando sei tu a dover prendere le decisioni importanti e non a riceverle, la sinfonia cambia.

Davanti a quei due mostri d’acciaio tentai di temporeggiare, mettendo a frutto tutto ciò che avevo fortunatamente imparato come apprendista presso la SEID Impianti di Dubienski Emilio, un’azienda di impianti elettrici industriali dove avevo maturato le mie prime esperienze di cantiere.

Prima di partire, avevo chiesto consiglio al mio coscritto Dario Visinoni, che da qualche anno lavorava come elettricista alla Radici Fill, un’azienda con macchine tessili simili a quelle di cui mi sarei dovuto occupare.

All’epoca il mio inglese era quasi inesistente, e quello dei cinesi lo era ancora meno: la comunicazione era un vero disastro. A ciascun tecnico straniero veniva assegnata un’interprete, e la mia era una giovane liceale senza alcuna conoscenza tecnica.

Ogni mia richiesta si trasformava in un lungo dibattito, come se stessero facendo una gara a indovinare cosa diavolo mi servisse.

Capito l’antifona, decisi di pensionare l’interprete e imparare i primi rudimenti di cinese.

Come nei film western, dove Toro Seduto cerca di dialogare con il viso pallido tra segni e suoni gutturali, pian piano iniziai a farmi comprendere.

Organizzai l’inventario del magazzino e feci numerare, secondo lo schema elettrico, tutte le utenze da servire. Ma la mia squadra sembrava viaggiare al doppio della mia velocità: come tanti cagnolini, tornavano da me in attesa che rilanciassi ancora il bastone delle incombenze.

Tra gli elettricisti c’era anche un piccoletto con i capelli a caschetto che, fin dal primo giorno, tentò in ogni modo di farmi sentire a mio agio. Forse era l’unico capace di sfornare qualche parola in inglese. Per il suo aspetto lo soprannominai “Funghetto”, e si rivelò prezioso come tramite con tutti gli altri.

Quel giorno tornai alla guest house completamente stremato, ma felice di aver ingranato la marcia e mosso i primi passi in completa autonomia.

Dopo una doccia, scesi nella stessa unta stanza dove al mattino ci avevano servito la colazione, e ci ritrovammo tutti a tavola per la cena.

Gli animi erano già più distesi e, grazie alla simpatica presenza del giapponese Satoshi, in una pseudo allegria da rassegnati carcerati, ci scappò anche qualche risata.

Il cibo consisteva in una ciotola di riso al vapore, una brodaglia con strane verdure e funghi in ammollo, le immancabili arachidi.

Fortunatamente potevo ancora contare su un salame e una fetta di formaggio grana che al mattino avevo riposto nel frigorifero comunitario.

A parte qualche scatoletta di Manzotin e un tubetto di latte liofilizzato, il salame e il grana erano le uniche cose che mi erano rimaste dopo aver ceduto tutto il resto dei viveri al povero Sig. Lomastro.

Capito che dopo la zuppetta non ci sarebbe stato altro da mettere sotto i denti, decisi di premiarmi per il successo di quella prima giornata con una fetta di salame.

Attesi che gli altri si ritirassero nelle loro camere e, come se stessi per rubare qualcosa a me stesso, mi diressi verso il frigorifero.

Quando aprii lo sportello, venni investito da un terrificante odore di pesce marcio. Guardando all’interno, però, non vidi alcun pesce andato a male: solo strane radici, qualche lattina e alcuni pacchetti con scritte in giapponese.

Erano proprio quei sacchetti a rilasciare il nauseabondo odore: si trattava di Shimaya Dashi no Moto, un preparato a base di pesce per fare il brodo, e in altri c’era del baccalà affumicato.

Tolsi il mio povero salame e il grana da quel frigorifero contaminato, ma ormai non c’era più nulla da fare: erano completamente intrisi, da buttare.

Gli aromi dei viveri di conforto del simpatico giapponese Satoshi avevano conquistato il frigorifero, che non fu più utilizzabile dal resto del gruppo.

Non mi rimase che far rientro nella mia stanza e lasciarmi sopraffare da Morfeo.

Continua...

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