
C’è posta per te
Cristina aveva lanciato la pochette sulla sedia e si era lasciata cadere sul letto, col cappotto nero che aveva addosso; senza togliersi neppure le scarpe.
Prima di uscire per andare alla messa del trigesimo, rovistando nei cassetti aveva trovato una busta bianca con dentro una lettera. Era per lei, l’aveva letta e riletta più volte. Durante la messa non aveva pensato ad altro. Le parole di Padre Lorenzo erano state come un lontano brusio.
Distesa sul letto, aveva infilato la mano nella tasca destra del cappotto. Il foglio che aveva accartocciato in un impeto di rabbia e di dolore, ormai era completamente sgualcito.
Ciao Cri,
ci sono persone che dicono spesso alla loro ragazza, compagna, moglie o amante: «Ti amo, ti amo, ti amo.»
Io non te l’ho detto mai; non ne sarei capace neanche ora. Forse è vero – come dici tu – chi amore ha ricevuto, amore dà. Io non ne ho ricevuto abbastanza, sin da piccolo, o forse neanche un po’. In casa nostra mai, neanche per cantare la canzone di Umberto Tozzi, erano state pronunciate certe parole. A mia madre dava fastidio anche il suono della musica trasmessa dalla radio.
Ho sempre difeso la mia famiglia: mio padre, mia madre i miei fratelli e le mie sorelle. Abbiamo funzionato come un clan: tutti per uno e uno per tutti, ma senza alcuno slancio affettivo. Nessun abbraccio, nessuna carezza, nessun gesto di tenerezza, non solo tra noi fratelli maschi, ma neppure da parte di mia madre o delle mie tre sorelle. Siamo rimasti sempre uniti, legati dal sacro vincolo degli indicibili segreti familiari. La depressione di mia madre, i tradimenti di mio padre, l’omosessualità di mio fratello, l’aborto di mia sorella. Tutte cose di cui vergognarsi, in un piccolo paese come il nostro. Quando Elisabetta è rimasta incinta di un nostro cugino, l’hanno mandata in vacanza a Milano, da una lontana parente che lavorava in ospedale come ostetrica. Quando è tornata a casa, mia sorella sembrava un’altra: più magra, con i capelli corti e una mini gonna che mio padre ha fatto subito a pezzi con le forbici. Tonio le aveva chiesto se fosse malata. Oltre ad aver perso un po’ di chili, era anche pallida, per il poco sole di una città grigia e la prolungata clausura nell’ appartamento di un palazzo senza giardino e senza cortile.
«Sembri tisica» le aveva detto Tonio, ispido come sempre. Elisabetta non gli aveva risposto: le avevano imposto il silenzio, con lusinghe e velate minacce. Neanche col prete poteva parlare di quel bambino mai nato.
Con te, Cri, non poteva andare diversamente: da parte mia nessuna manifestazione affettiva; nessuna dolcezza; nessun atteggiamento romantico. Niente fiori con bigliettini e cuoricini.
Sono diventato un orso, calzato e vestito, ma in fondo, in fondo – come cantava Lucio Dalla – a modo mio, avrei bisogno di carezze anch’io. C’è un pugno di muscolo duro che pulsa anche nel mio petto.
Una lunga storia, la nostra, a volte piatta, a volte infuocata. In questi ultimi anni è sprofondata negli abissi di un inferno sulla Terra. Ci siamo incontrati, attratti, uniti in matrimonio (nella buona e nella cattiva sorte). E poi scontrati, sopportati e allontanati; pur continuando a vivere l’uno accanto all’altro; più che amanti, complici e amici, come due dirimpettai. Sono passati alcuni decenni. Tu sei rimasta, nonostante tutto, e neppure io ho avuto la forza di andare via. Sbraitando qualche volta e minacciando l’abbandono del tetto coniugale, per poi rientrare a casa trafelato, dopo aver sbollito la rabbia, pedalando e sudando nelle lunghe gincane con la mountain bike.
I primi anni ci siamo imposti di restare insieme per il bene di nostro figlio. Abbiamo deciso di consacrare l’ unione civile con il rito religioso, per il battesimo del nostro bambino. Una cerimonia sobria, per pochi intimi, dove le attenzioni, gli addobbi in casa e i doni, erano tutti per Angelo, la nostra vera ragione di vita.
A poco, a poco, anch’io stavo cambiando. Mi sentivo diverso: quel frugoletto indifeso, che si addormentava tra le mie braccia, col pollice in bocca, stava iniziando a sciogliere le incrostazioni più dure che si erano formate dentro di me.
Uno dei suoi primi vocalizzi era stato brum brum, dopo aver sentito il boato di una moto che sfrecciava, più volte al giorno, davanti a casa. Per il suo compleanno gli regalammo una piccola moto elettrica. Giocava solo con quella e ogni tanto rovesciava qualcosa. Il giorno che ruppe la lampada di vetro soffiato comprata a Murano, durante il viaggio di nozze a Venezia e dintorni, (costata una cifra enorme), osservando quel manufatto prezioso ridotto in frantumi, abbiamo riso.
Ora dormiamo separati: tu o io sul divano e io o tu nel letto. Ci alterniamo. So bene che soffri d’insonnia. Dici che quando ti svegli, accendi la luce e leggi, o scrivi, o ascolti musica gregoriana. Poco tempo fa, quando dormivamo ancora insieme, mi dicevi che a volte scalcio, a volte parlo nel sonno, a volte russo, mi agito o mi lamento. Ma non è solo per questo che ti sei allontanata. Il tuo dolore più la mia pena, nel buio della notte, creano una sofferenza al quadrato.
Ora lui non c’è più: l’angioletto biondo è volato via. Adorava le moto, soprattutto la kawasaki 1000 che passava in continuazione davanti a casa. Ha fatto un volo di tre metri, lanciato come un pupazzo, sulla ringhiera del nostro giardino.
Il nostro unico figlio voluto, bramato, concepito dopo un aborto spontaneo e nato al termine di una gravidanza difficile. Nove mesi di riposo assoluto – per te – distesa sul letto a leggere, ascoltare musica e, soprattutto, a pregare in silenzio che tutto andasse bene, che il bambino nascesse sano e forte.
Aveva iniziato presto a camminare e poi a saltare e a trottare. Andava veloce, instancabile. Sprizzava energia da tutti i pori. Aveva deciso di iniziare a correre anche con la sua moto giocattolo, in strada, il giorno che il bestione l’ha travolto. Era una domenica pomeriggio, soleggiata. Io, dopo il pranzo e una birra, mi ero assopito sul dondolo a tre posti, in giardino, mentre lui giocava a pochi passi da me. Tu avevi finito di sparecchiare e stavi andando a buttare la bottiglia nel mastello, sul retro della casa. Il rombo della moto in arrivo mi ha fatto spalancare gli occhi. Ho visto il volo di Angelo sentendomi paralizzato, come nel peggiore degli incubi infernali.
Da quel giorno non so più che fare, soprattutto per te. Oggi ho cucinato i fusilli al sugo, che ti piacevano tanto. Hai detto che non hai fame e li ho tenuti in caldo, per dopo; magari più tardi…
Ciao, Cri.
PS Questa l’avevo lasciata sotto il tovagliolo, ma poi ci ho ripensato e l’ho tolta. Per me uno sfogo, per te solo un’altra coltellata.
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Grazie Fabius. La vita a volte ci riserva dure prove da affrontare. Io al caso non credo piu`. Penso che tutto abbia un senso, nell’ evoluzione della specie umana, anche quando accettare l’ amara realta` sembra impossibile. Per fortuna ci sono pure le gioie che ci aiutano a risollevarci, anche nei momenti piu` difficili. E ci sono altri con cui condividere le stesse pene. E poi ci sono gli autori di testi che ci risollevano il morale con le loro parole, riuscendo a strapparci qualche sorriso anche quando lo sconforto ci opprime. E forse, come cantava Franco Battiato, ci sara` qualcuno che cantando o scrivendo, ci sollevera`dai dolori e dagli sbalzi d’ umore.(…) ci salvera` da ogni malinconia…
Almeno per un po’.
Cosa possiamo fare contro un destino avverso? Niente. Siamo in balia del destino, come le foglie sugli alberi in balia del vento; qualcuna cade al primo soffio, le altre resistono ma prima o poi tutte dovranno cedere al vento: non c’è giustizia, solo casualità. Sopravvivere ai propri figli è una ingiusta condanna: una condanna a vita fino alla morte. C’è chi trova risposte nella fede che sa trovare sempre una risposta pronta, e chi questa risposta la rispedisce al mittente.
Bel racconto, mi hai fatto provare un senso d’impotenza e di triste tristezza ( per dirla alla Fabius P.) per questa vita ingiusta.
Brava M.Luisa, mi hai colpito al cuore. Ora devo scrivere una delle mie cretinate per tirarmi su di morale.
A volte la vita si gioca in un istante, impossibile sapere se sarebbe andata diversamente con un’azione immediata. Impossibile non crollare sotto il peso del senso di colpa e dei rimpianti. Una storia dura quella che ci proponi, dove a morire quel giorno è stata l’intera famiglia. É così nel migliore dei casi, almeno una parte di noi muore e se ne va assieme a chi abbiamo amato. Al tempo stesso, offri al lettore la soluzione: aprire il proprio cuore a chi ci è accanto guardandolo negli occhi, lottando per un cambiamento.
Ciao Micol, ti confesso che in parte, devo decifrarlo anch’ io il senso di questo racconto che mi e` un po` sfuggito di mano. Cio` che piu` e` evidente e` la perdita atroce e irreparabile del figlio. Il padre che si sente impotente e vorrebbe rimediare, ma non puo` e soccombe sotto il peso (come dici anche tu), dei sensi di colpa). E lei, la madre, che resta sola col suo dolore e potrebbe salvarsi, forse. Come non si sa. Con il miracolo di un altro amore ancora lontano? Con l’aiuto della fede e di padre Lorenzo? Dedicandosi anima e corpo a qualche impegno umanitario? Boh!? Ci vorrebbe una prosecuzione della storia.
A volte mi capita di chiedermi come sarebbe…ma poi scaccio subito il pensiero che mi atterrisce. Il tuo racconto, scritto benissimo con parole “pensate” mi ha fatto sentire triste. Molti genitori non ce la fanno, come i tuoi protagonisti, però io ne conosco (ahimè) che invece hanno trovato il loro modo. Mi hai dato molti spunti su cui riflettere. Grazie💜
Ciao Cristiana, questo racconto ha preso una piega totalmente diversa da quella che avevo in mente. Come se non fossi io a decidere come sviluppare la storia, ma i personaggi chiamati in causa. In realta` credo che sia emersa una delle mie (o nostre), paure piu` grandi: quella di perdere un figlio o un’ altra creatura a cui siamo legate come se l’ avessimo generata e amata come tale. Il timore di una perdita irreparabile che non solo lascia il segno, ma puo` creare una sorta di cancrena interiore. Chi riesce a sopravvivere e a rassegnarsi, credo possa farlo solo con il supporto e il conforto di altri affetti solidi.
Ciao Maria Luisa. In una sola lettera sei riuscita a parlare di tanti drammi e a trasmettere forti emozioni. Una lettera malinconica, sofferente, di una persona distrutta dal dolore che riesce finalmente in qualche modo a liberarsi dei propri demoni passati. Non sono sicuro di aver interpretato bene, ma immagino che questa lettera sia un addio definitivo e che Cri non rientrava dalla messa per il figlio, giusto?
Giusto Carlo, hai capito bene. Questa storia del dire e non dire, del lasciar intendere, mi mette un po’ in crisi. Mi chiedevo, ultimando la scrittura del testo, ma sara` abbastanza chiaro che lui non ce l’ ha fatta a reggere il peso dei suoi rimorsi? Forse non sono stata abbastanza chiara, ma tu, meno male, mi capisci. Grazie Carlo.
Ogni giorno entro nel sito con la speranza di trovare uno dei tuoi racconti. Spero presto.😉