COLERA…

A volte dimentico. Succede così, per sbaglio. Tipo quando c’è il sole, o quando la prof saluta prima di suonare l’ultima campanella. Un istante solo, ma mi sembra di tornare a casa e mamma è lì, in cucina. Ha preparato la pasta col sugo e il basilico, e mi chiede: «Hai fame?» anche se già lo sa. Un attimo. Poi svanisce. E resta solo il vuoto. Quello vero.

Il corridoio si riempie di voci. Afferro lo zaino e mi infilo tra la folla. Prima scala, poi la seconda. Devo arrivare al piano terra. Se corro abbastanza, forse oggi mi salvo.

«’A napoletano! Che fai, scappi?»

La voce mi taglia la schiena. È Danilo. Non mi giro. So che è lui. Sempre lui. Se accelero adesso, se svolto in tempo, magari mi lasciano stare. O domani gli dico che non ho sentito. Forse funziona. Forse…

«Dove cazzo corri, pezzo di merda?!»

Danilo mi afferra. Una mano che mi gira di scatto, mi sbatte contro l’armadietto. Il fiato che si spezza. I suoi occhi schizzati a un centimetro dai miei. Alle sue spalle, quattro ombre. Tutte con la stessa faccia. Mi chiudono il cerchio addosso. E in mezzo… Marco.

Marco, che in classe siede accanto a me. Che ieri ho aiutato con un esercizio di algebra. Che ha sorriso. Lui adesso ride con loro. Ride anche troppo.

Mi guarda dritto negli occhi. Io provo a reggere lo sguardo, ma finge un pugno e, d’istinto, alzo il braccio a proteggermi. Loro ridono. Anche Marco. Ride pure lui.

«Ve l’avevo detto che è un cagasotto. Uno spasso sto terrone.»

Poi si avvicina ancora. «Allora, colera. Dove stavi correndo, dalla mammina?»

«No… è che dovevo…»

«Zitto. Ora senti il nostro nuovo coro!»

Si voltano, si gasano. E parte. Sempre lo stesso. Sempre più forte.

«Odio Napoli, odio Napoli… mondezza siete, mondezza resterete… senti che puzza, scappano anche i cani… stanno arrivando i napoletani… o colerosi, terremotati, voi col sapone non vi siete mai lavati!»

E poi la voce di Marco. La più forte.

«Lavali, lavali, lavali col foco… ’o Vesuvio lavali col foco!»

La sua voce. Quella che ieri mi ha detto “grazie”.

Mi guardano. Vogliono vedere la crepa. Vogliono il gusto di rompermi.

«Ti è piaciuto?» chiede, mentre io provo un mezzo sorriso, o almeno penso di farlo.

Gli insulti ormai li sopporto. I cori. Le risate. I calci, gli schiaffi, i pugni allo stomaco. L’unica cosa che desidero è che finisca in fretta. Che mi colpisca. Che mi lasci andare. Realizzato.

«Lo sai che non ce l’abbiamo con te, vero?» dice. «È solo che sei napoletano. E noi i napoletani li odiamo. Vero ragazzi?»

Annuiscono in coro. Come cani.

Danilo mi mette una mano sulla spalla. Sembra quasi gentile. Ma poi stringe. E mi trascina. Dentro.

Nei bagni del primo piano. I neon sfarfallano. Puzza di piscio e candeggina scaduta. Mi spinge contro il muro. Il pisciatoio freddo sulla schiena. Gli altri entrano.

«Facciamo così» dice. «Se confermi che sei un napoletano di merda, ti lascio andare.»

Io lo dico. Con voce rotta, spezzata. Lo dico. Per finire. Per tornare invisibile.

Marco, intanto, tira fuori il cellulare. Inquadra. Ride. Inquadra.

«Ora devi dire che ti scopi tua madre. Anzi, che ti piace guardare mentre ce la scopiamo noi.»

Danilo accompagna le parole con la mano che mima l’atto. Gli altri ridono.

Io alzo lo sguardo.

Nello specchio sopra il lavandino ci sono io. Ma non sono io.

La bocca si apre. Le parole restano impigliate in gola.

Poi escono. Le sussurro come un codice sbagliato.

E mentre lo faccio, abbasso gli occhi. E non mi ascolto.

Le risate esplodono. Marco riprende tutto. Anche le mie lacrime asciutte. Anche il mio silenzio.

Danilo si volta, la faccia schifata. Fa due passi verso l’uscita. Poi si ferma. Resta lì un attimo, come se stesse decidendo. Si gira. Torna verso di me.

Mi guarda fisso. Poi, secco, mi molla uno schiaffo. Forte. La testa mi si gira. Il mondo si ferma un attimo.

Uno degli altri fa un passo avanti. Gli occhi accesi. Sta per colpirmi anche lui. Danilo lo blocca con un braccio teso. Uno sguardo solo. Nessuna parola.

Poi torna a fissarmi.

«Per tua madre, che non te merita. E perché non hai le palle.»

E se ne va. Con la schiena dritta. Senza guardarsi indietro.

Gli altri lo seguono. Trascinano con sé le risate, la puzza, l’aria.

Marco resta indietro. Si guarda attorno. Rimette via il telefono. Si pulisce le mani sul giubbotto.

Si gira verso di me.

«Hai ancora gli appunti di storia?»

Lo guardo. Non rispondo.

«Li ho persi,» dice, come se non avesse appena urlato “lavali col foco”.

Glieli porgo. Le mani mi tremano. Le sue sfiorano le mie.

«Grazie,» dice.

Fa per uscire. Poi si gira appena.

«Ah… tranquillo. Il video lo cancello.»

Lo dice piano. Quasi annoiato.

E se ne va.

Come se nulla fosse successo.

Come se io fossi ancora quello bravo in algebra.

E lui, ancora quello che sorride.

Resto solo. Lo specchio sopra il lavandino è opaco. Ma la macchia sulla mia guancia no. Mi pulisco piano. Come se bastasse. Come se fosse solo sporcizia.

Esco dal bagno.

Il corridoio è vuoto, ma non silenzioso. Le voci sono già lontane, leggere, come risate dopo una festa.

Mi appoggio al muro. Sento qualcosa salire dal basso. Lo scroto vibra. Una morsa nel ventre, calda e marcia. Come quando capisci che succederà di nuovo.

Guardo verso l’uscita. Magari domani Danilo non c’è. Magari oggi è stata l’ultima volta.

Ed immagino. Una notizia. Un motorino steso. Una madre che urla.

Per un attimo ci credo.

Succede così, per sbaglio. Tipo quando c’è il sole…

Un attimo. Poi svanisce. E resta solo il vuoto. Quello vero. 

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Discussioni

  1. Una crudezza che fa male, ma che è necessaria. Odio la frase “Sono ragazzate, poi crescono e diventano bravi padri di famiglia”. No, saranno sempre dei bastardi prepotenti, quindi, gli adulti che vedono e girano la testa hanno la colpa di non capire che così facendo costruiscono un futuro “marcio” per i loro figli, tutti. Bravo Lino, anzi, bravissimo!

    1. Ti ringrazio di cuore.
      Hai centrato il punto: certe frasi fanno solo danno, e ignorare certi comportamenti significa accettarli.
      Sono felice che il racconto sia arrivato forte. Davvero.

  2. Ancora una volta, mani che battono davanti a visi sorridenti, qualcuno lo fa alzandosi, qualcuno si volta verso la persona che gli siede accanto e chiede: “Hai visto che roba?”

  3. Un racconto che spezza il cuore. Ed è un complimento, perché una storia così deve fare questo effetto, far sentire il dolore, indignare, intristire e desiderare di poter intervenire. Non sembra di leggere, ma di essere proprio in mezzo a ciò che racconti ed è questo che spezza il cuore. Davvero tanti complimenti.

    1. Leggere parole così mi emoziona più di quanto riesca a spiegare.
      Sapere che la storia è arrivata forte, che ha colpito nel modo giusto, è il regalo più grande per chi scrive. Se anche solo per un attimo ti ha fatto sentire dentro quel dolore, allora forse qualcosa di vero è passato.
      Grazie di cuore per averlo letto così, con empatia. Conta tantissimo.

  4. Colpita e affondata anche stavolta da questo racconto talmente credibile e toccante da essere doloroso. L’ empatia che riesci a suscitare verso il ragazzo vittima di bullismo lascia l’amaro in bocca. Hai toccato anche stavolta un tasto dolente, una piaga sociale molto attuale di cui si parla tanto. La tua narrazione é molto particolare, tutt’altro che scontata.

    1. Ti ringrazio davvero tanto, le tue parole mi fanno un effetto forte, nel senso buono. Sapere che quello che scrivo arriva così, dritto e senza filtri, è la cosa più bella che possa succedere a chi racconta storie.
      Ti chiedo una cosa, se posso: visto che ormai hai letto quasi tutti i miei racconti brevi, secondo te ce n’è uno che potrebbe avere le gambe per diventare qualcosa di più lungo? Sto pensando di provare a scrivere una storia più ampia, ma sono un po’ indeciso su da dove partire.
      Non so se è una domanda fuori luogo, magari sì, ma mi farebbe davvero piacere sentire il tuo parere.

      1. Una scelta difficile: i tuoi racconti sono tutti ben riusciti, intensi e toccanti. Io, fossi in te, lascerei quelli già pubblicati così come sono e comincerei a scrivere una serie del tutto nuova, quella storia che ti solletica la mente, che non é ancora non é del tutto chiara, ma per raccontare tutta la storia si puó iniziare a scriverla, per poi continuare, un episodio dopo l’ altro, cavalcando sulle ali della fantasia, senza perdere di vista il mondo, con le sue brutture e le sue incantevoli bellezze.