Come l’ho conosciuta
Serie: Amore Bianco
- Episodio 1: Come l’ho conosciuta
- Episodio 2: Come mi ha ucciso
STAGIONE 1
Sono passati esattamente tre anni dalla prima volta che l’ho incontrata… dalla prima volta che mi sono veramente innamorato. Ricordo alla perfezione tutti i piccoli e insignificanti attimi, vissuti nelle ore antecedenti a quel momento: pioveva, ma non abbastanza da poter dire che fosse una brutta giornata; il classico giorno in cui le persone si riparano momentaneamente sotto una tettoia, nella speranza che torni a splendere il sole da un momento all’altro; appena uscito da scuola, mi accesi una sigaretta aspettando l’autobus, mentre tra me e me cominciai a rivangare pensieri sepolti sotto metri di paura; ad un certo punto decisi di farmi la strada a piedi… non avevo voglia di vedere i miei quel giorno. È strano cercare di raccontare cose che mi ero promesso di dimenticare. Per quanto vittimistica e patetica possa essere una frase del genere, la vita è stata veramente sadica nei miei confronti. Quel giorno ero pensieroso. Non volevo vedere nessuno. Mi mancava Pietro, così come mi manca tutt’ora. Da quando non c’è più, tutto è grigio, insipido e deprimente. Da quando mio fratello è morto, è tutto uno schifo. L’ultima volta che lo vidi avevamo discusso, come tutte le altre volte, per una cosa che adesso non vale nulla in confronto alla voglia di riabbracciarlo: i soldi. Ci scagliammo contro ingiurie pesantissime, tirando fuori cose rimaste segregate per anni dentro la gabbia del risentimento, a causa dei soldi per la benzina: entrambi sostenevamo che fosse l’altro a dover pagare il pieno. Per quanto fosse una cosa stupida, tanto bastò per divenire il pretesto dello sfogo di rabbia repressa. Io e Pietro non parlavamo quasi mai, e le uniche volte che lo facevamo, era solo per via del fatto che nelle nostre vene scorresse lo stesso sangue. Dio quanto vorrei parlarci oggi… ma non posso farlo, perché quel giorno, nero di rabbia, prese la macchina e non fece mai più ritorno. Dopo ore di attesa, venimmo a sapere quello che nessuna famiglia vorrebbe mai sentire: Pietro era morto… un frontale che privò sia lui che l’altro conducente di tutto. Per quanto uno possa cercare di spiegare cosa si prova, nessuno può capire. Nessuno può capire cosa si prova a perdere un fratello, un nipote… un figlio. Da quel giorno in avanti cambiò tutto. In casa, quella che prima poteva essere definita una caricatura malriuscita di una famiglia, divenne un raccapriccio degno della Biennale di Venezia. I miei si addossarono direttamente la colpa dell’accaduto, e indirettamente la addossarono a me, attraverso un trattamento adeguato ad una causa persa quale sono io ai loro occhi. Pietro era quello bravo a scuola, quello che aveva successo con le donne, e quello che non si metteva mai nei guai. Io ero, e sono tutt’ora l’opposto. Era morto il loro figlio preferito, e quello che rimaneva non era altro che uno spermatozoo che non avrebbe mai dovuto raggiungere l’ovulo… il tumore della famiglia. Proprio per via di questa situazione, quel giorno, all’uscita da scuola, volli farmela a piedi. Proprio per via di questa situazione, quel giorno navigai nei miei pensieri, trainato dalla paura… dalla paura di non riuscire più a sorridere. Cominciai a camminare a testa bassa, rifuggendo lo sguardo di chiunque avrebbe potuto riconoscermi, chiedendomi perché camminassi sotto la pioggia. Passai per le strade solitarie e anguste del mio desolato paesino, finché non mi ritrovai nel centro storico… completamente vuoto, esattamente come me. Alla semplice idea di poter incontrare qualcuno che mi conoscesse, decisi di passare per gli spogli e degradati vicoletti sporchi di urina che circondano il centro. Ironia della sorte, proprio in quei vicoletti incontrai un tipo. Inizialmente, da lontano, lo vidi avvicinarsi velocemente. Da quella distanza non ebbi modo di riconoscerlo, tant’è che in me cominciò a sorgere una labile sensazione di inquietudine, che svanì in uno sbuffo di fumo non appena mi fu abbastanza vicino da permettermi di capire chi diamine fosse. Era Marco, un ragazzo di poco più grande di me che abitava vicino a casa mia, con il quale facevo serata il fine settimana, e che, approssimando, potevo definire il mio migliore amico. Tra me e lui c’era un rapporto molto strano, per non dire perverso: eravamo le classiche due persone che non avevano nessun interesse in comune, ma nonostante ciò si trovavano bene insieme; in realtà non è che non avevamo nessun interesse in comune, perché uno in realtà c’era… la cocaina; fu con lui che provai la coca per la prima volta… e tutte le successive; ai tempi lo vedevo come un mentore, dato che di esperienze con le droghe ne aveva avute a bizzeffe, e un tossico in erba come lo ero io non poteva fare altro che restarne affascinato; saltai a piedi pari dagli spinelli alla cocaina, dando tutta la mia fiducia ad una persona che gradualmente prese il posto di Pietro; da solo non riuscivo nemmeno a sbattere la testa da qualche parte, così mi aggrappai alla prima persona che mi capitò sotto mano, ovvero un tossico. Quando lo riconobbi non potei fare a meno di notare quanto fosse euforico: sorrideva come un idiota; procedeva a passo spedito come un bersagliere; nonostante piovesse, si vedeva da lontano che era sudato come un cavallo, dato che si muoveva svelto come se avesse avuto fretta. Inizialmente pensai che avesse sniffato, così, dopo averlo salutato con leggera inquietudine, gli chiesi dove fosse diretto. «Menomale che ti ho incontrato!», «Sto andando a prendere una cosa da un’amica, ti va di accompagnarmi?», «Non è lontano, mi sta aspettando in macchina nel parcheggio dietro al cimitero». Il posto non era lontano, e dato che ogni scusa era buona per non tornare a casa, accettai di andare con lui. Non ebbi nemmeno modo di farmi spiegare cosa dovesse andare a prendere, che subito arrivammo nel posto prestabilito. Nel parcheggio era presente solo una macchina: una vecchia Ford Ka, le cui parti sembravano reggersi al telaio grazie allo sputo; con la vernice scrostata sulla fiancata e i fanali ingialliti dal tempo, mi diede l’idea di essere la macchina di qualcuno di cui non ti fideresti nemmeno sotto tortura. Non appena fummo abbastanza vicini, dall’auto scese una ragazza bellissima: capelli color nero corvino, lunghi e leggermente ondulati; occhi verdi circondati da occhiaie dense, palesemente dovute alla carenza di sonno; labbra carnose e seducenti, rese meno tali dal fatto che fossero screpolate; nonostante indossasse una felpa oversize e dei pantaloni cargo, con il giusto occhio si riusciva ad intravedere la silhouette di un corpo fragile e denutrito; quasi mi fece impressione vedere un viso bello come quello, contrapposto ad un corpo indubbiamente trasandato. Non appena si rese conto che il mio amico non era venuto da solo, assunse in volto un’espressione estremamente ansiosa, e cominciò a guardarsi intorno. Nemmeno quando Marco le disse che di me poteva fidarsi, ritrovò la pace. In fretta e furia diede a Marco una bustina, lui le diede dei soldi, e lei si dileguò in una frazione di secondo. Solo dopo qualche istante mi resi effettivamente conto di aver partecipato ad uno spaccio, e una volta fatto chiesi al mio amico cosa avesse comprato. “Non qui”, mi rispose. “Andiamo a casa mia, così ti spiego tutto”, disse. Dentro di me una vocina iniziò a sussurrarmi di alzare i tacchi e di farmi gli affari miei, ma la curiosità ci mise lo zampino. Volevo sapere se fosse coca o altro, ed eventualmente provarla. Andammo così a casa sua. Il tragitto fu qualcosa di incredibilmente disagiante: percepivo intorno a lui l’aura del desiderio di spiegarmi cosa avesse per le mani, ma allo stesso tempo la paura di farlo in mezzo alla strada, dove qualcuno avrebbe potuto sentirci. Camminammo così il più velocemente possibile, e non appena ci ritrovammo nella sua stanza vuotò il sacco all’istante: era eroina. Marco spacciava all’epoca, e credeva che vendendo quella roba si sarebbe creato una cerchia di clientela fidata. Un gregge di tossici che avrebbe avuto bisogno di lui per farsi. Dalle nostre parti l’eroina girava già da tempi immemori, ma in quel modo avrebbe potuto guadagnare anche lui da quel circolo vizioso deprimente. Onestamente dell’etica non me ne è mai fregato nulla, quindi non mi sono mai nemmeno chiesto se fosse giusto o sbagliato vendere morte a persone che se la sarebbero comunque andata a cercare altrove. Vedere Marco maneggiare l’ennesima polverina non mi fece chissà che effetto. Non mi fece effetto neanche quando lo vidi premere una sigaretta inumidita con la saliva sopra la polverina. “Devo provarla prima di venderla, perché devo capire quanto la devo tagliare”, disse quasi per giustificarsi, non tanto con me, quanto più con sé stesso. Sdraiato sul letto, dopo averla accesa cominciò a farsi qualche aspirata, mentre io rimasi in piedi accanto a lui, fissando intensamente la sigaretta corretta. Mentre il tempo al di fuori di quella stanza continuò a scorrere, al suo interno quasi si fermo, e l’unica cosa che ne cominciò a scandire il suo fluire inesorabile, fu la sigaretta che, a poco a poco, si fece sempre più corta.
Serie: Amore Bianco
- Episodio 1: Come l’ho conosciuta
- Episodio 2: Come mi ha ucciso
Mi piace, ma sembra che tu voglia dire tutto subito. Forse varrebbe la pena di dosare le informazioni.