La Panxa del Bou

Il concerto alla Panxa del Bou era terminato e alcuni ragazzi si affrettavano nella pulizia dei tavoli con il miraggio di raggiungere il letto quanto prima.

«Stasera Garriga è stato strepitoso! Non ti dico cosa gli farei quando si toglie la maglietta». Michele, che per i suoi nuovi amici era semplicemente Michè, fece l’occhiolino a Marta, che lo guardava storto.

«Figurati se quello ti guarda a te! Quello è maschio, mica come te.»

«Ok, sarà pure maschio, ma ce l’ho anche io il diritto di guardare, o no?» Michè sembrava risentito. Quelle solite battute lo stancavano ancora.

«Certo, certo, ma non ti illudere. E poi è vecchio.»

«Va be’, lascia perdere, che te mi sa che ne sai meno di me.»

«Vaffanculo, Michè», Marta gli girò le spalle.

«Ecco, complimenti. Hai altro da aggiungere? Lasciamo perdere, ho detto.»

Un uomo moro e barbuto fece capolino dalla cucina e bastò un suo sguardo perché i ragazzi chiudessero la bocca e si rimettessero al lavoro. Poi disse qualcosa sotto voce che assomigliava molto a una lunga fila d’imprecazioni e, come al solito, non lo fece in spagnolo: «Aneu a la merda imbècils, polla!» Quello Michè lo aveva capito bene. Aveva faticato parecchio all’inizio e gli era sembrato a volte di stare su un altro pianeta, magari su Marte: «Cazzo, qui lo spagnolo non lo parla nessuno. Mi sono sbattuto per impararlo e quasi non mi serve a niente. A saperlo prima, scappavo da un’altra parte», ripeteva sempre all’unico vero amico che gli era rimasto al paese, quelle volte, sempre più rare con il trascorrere del tempo, che si sentivano al telefono.

Michè passava lo straccio sui pavimenti e mentre lo faceva, ancheggiava. Le orecchie gli fischiavano ancora e la musica che aveva ascoltato quella sera gli martellava il cervello. Prima di arrivare nella sua nuova città era convinto, come la maggior parte delle persone, che il flamenco fosse l’unico ritmo di Spagna e soprattutto immaginava i maschi spagnoli con enormi baffi e grandi bocche da cui uscivano terribili lamenti a suon di musica. Forse era addirittura convinto che la Spagna e il Messico fossero un po’ la stessa cosa. Fino a quando Angela, che era tornata da poco da una vacanza a Barcellona, gli aveva detto che lui ci doveva assolutamente andare perché in quella città la gente non ci faceva molto caso se a te piacevano gli uomini o le donne e a come ti vestivi. Gli aveva detto anche che la musica era pazzesca e con tutti i ritmi mescolati: la facevano ogni sera, dal vivo, quasi in tutti i locali e se tu sapevi suonare, allora prendevi la tua chitarra e la gente ti applaudiva e cantava con te. Insomma, gli aveva così tanto parlato di Barcellona che Michè aveva preso le sue cose e ci era volato.

Da casa lo avevano cercato poco, forse perché Michè dava un po’ fastidio. Lui non era come avrebbero voluto e nemmeno come i ragazzi maschi della sua età. Piuttosto era come le ragazze, ma quello certo non andava bene. Lui le guardava ammirato e incantato dai loro capelli e da come si muovevano. La cosa che più gli piaceva erano gli occhi truccati di mille colori e con l’eyeliner. Una volta l’aveva comprato di nascosto su amazon e aveva provato a metterlo, ma poi non sapeva più come toglierlo e aveva grattato forte con il sapone. I suoi occhi sembravano pesti come dopo una scazzottata, ma nessuno ci aveva creduto che si era fatto a cazzotti e allora lo avevano preso tutti per il culo. Lui avrebbe voluto dirglielo che gli piaceva truccarsi e che era certo di saperlo fare bene, ma ci sono cose che quando sei un ragazzino non sai come fare a dire.

Passando lo straccio si ritrovò a fissare il proprio volto riflesso nello specchio sulla parete e vide il nero che colava. Si fermò per guardarsi meglio, ma non fece nulla per pulirsi perché per lui era motivo di orgoglio. Si era presentato al lavoro la prima sera con il trucco agli occhi e lo avevano guardato come si guarda un ragazzo carino, niente di più e niente di meno. Carino e truccato bene, tutto nella norma. Se fosse stato carino, ma truccato male, forse gli avrebbero detto: «Truccati meglio la prossima volta, che mi sembri Joker». Invece lui era bravo a farlo e quindi, tutto normale, niente di strano. Allora gli era venuta persino la voglia d’impegnarsi per imparare quella lingua che suonava così bella dal momento che si sentiva accettato.

Si era fatto nuovi amici nel locale e anche un discreto giro fuori. Aveva avuto un paio di ragazzi, ma niente di serio. Marta era la sua nuova migliore amica, perché lei camminava come un angelo e quando ballava la rumba era eccitante: alzava le braccia e si copriva appena gli occhi con le mani sbiciandoti attraverso le fessure delle dita. Gli uomini la guardavano e Michè desiderava essere guardato allo stesso modo. Marta, a dire il vero era anche una grande stronza e si credeva di poterlo rimproverare solo perché era più vecchia di lui. Michè spesso si risentiva dei suoi modi bruschi, ma poi la lasciava fare, perché lei lo aveva accolto quando lui non aveva nessuno e sarebbe stata sempre la prima.

Il calcio nel sedere gli arrivò da dietro ben assestato. «Oh, ma sei cretina?»

«Non ho capito se vuoi stare qui fino a domani direttamente o se ti muovi che vorrei andare a dormire», gli urlò Marta che quella sera era particolarmente impaziente.

Michè decise di lasciar perdere anche quella volta e si aggiustò i capelli annodandoli in un laccio.

«Ok, hai ragione, faccio in un attimo e arrivo.» Si diede un’ultima occhiata nello specchio per assicurarsi di essere veramente lui quel ragazzo talmente fortunato da essere preso a calci nel culo dalla sua migliore amica, esattamente nel posto dove aveva sempre sognato di stare.

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Discussioni

  1. Bona tarda, Maca ;D Confesso che ogni volta che sento qualche turista parlare catalano mi vengono le lacrime agli occhi e lo inseguo per ascoltarlo fino a quando non sembro una stalker. Sono felice di aver cresciuto mia figlia a Girona per i primi sei anni della sua vita, le persone non hanno etichette e non giudicano. Ho amato molto quei luoghi, trovando un equilibrio fra desiderio di saper vivere e volontà di produrre. I catalani spalancano le braccia quando si desidera l’integrazione: imparare la lingua, accogliere gli usi e le tradizioni. Casa è dove ci si sente bene e quella era la mia.

    1. Che belle parole, Micol! Le stesse emozioni che io ho provato! È come dici tu, sentirsi a casa. Avere il privilegio di parlare la lingua del luogo è impagabile. Come guardare il mondo a colori. Grazie per aver letto!

  2. Bel racconto e come tuo solito molto riflessivo, ma senza essere pesante. Michè mi ha ricordato molto un conoscente che anni fa trovò la sua strada a Barcellona e anche una mia amica è particolarmente legata sia alla Spagna, in particolare Siviglia, che alla Catalogna, Girona in particolare. Anche lei, avendo studiato il castigliano, trovò difficoltà all’inizio nella comunicazione, ma a differenza di Michè non si innamorò del catalano. Al prossimo racconto!

    1. Grazie Carlo, apprezzo sempre le tue parole. In questo racconto ci ho messo la simpatia per un bellissimo ragazzino che mi è capitato d’incontrare e a cui ho voluto fare un piccolo “regalo” e l’amore per una città veramente fuori dal comune, direi anticonformista. Mi è piaciuto usare un po’ di leggerezza per parlare di una tematica che purtroppo di “leggero” non ha niente. Il catalano lo impari bene anche solamente ascoltando musica cantata. Sembra strano, ma ha quasi più dell’italiano che dello spagnolo! Grazie ancora, un abbraccio

  3. Una narrazione un po’ diversa dai tuoi racconti precedenti, sempre scorrevole e mai banale. Piacevole il tono leggero usato per toccare un tasto spesso dolente, nella nostra societa` troppe volte razzista, classista e omofoba.

    1. Ciao Maria Luisa! Ho chiacchierato un po’con un bellissimo ragazzino commesso in una profumeria che aveva gli occhi splendidamente truccati e mi ha fatto venire voglia di dedicargli questo racconto leggerino. Vero, un po’ diverso. Però anche lui era molto sbarazzino e lo rispecchia. Grazie X leggermi sempre!

  4. Bellissimo racconto; da un lato un pò triste perché Michè è stato costretto ad andare lontano per poter essere se stesso, dall’altro gioioso perché Michè ha incontrato Marta che gli dona un’amicizia sincera. I ‘diversi’ non esistono, siamo noi a renderli tali.

  5. Mi imbatto per la seconda volta in un tuo lavoro e devo dire che per gli argomenti che scegli di trattare sei nelle mie corde. Questa volta il tuo racconto ci parla di una realtà amara: c’è chi deve andar via per essere accettato così com’è. Michele doveva truccarsi di nascosto, veniva preso in giro per la sua omosessualità, che per la famiglia era addirittura un peso o una vergogna. Malgrado questa considerazione amara sia ben evidente tra le righe del racconto, esso non è per nulla pesante. La storia è narrata con freschezza, quasi a voler sottolineare l’assoluta normalità delle pulsioni verso gente del proprio sesso. Nella tua opera Michele non è un omosessuale, è uno a cui piacciono gli uomini e a cui piace truccarsi. Brava!
    Forse il finale è un tantino precipitoso o comunque mi ha dato l’impressione di un “to be continued”.

    1. Ciao Francesco e grazie per il tuo apprezzamento. Io, generalmente, scrivo di vissuti miei, luoghi dove sono stata e storie che ho incontrato. Difficilmente riesco a discostarmi dalla mia realtà e intimità. Quando ci guardiamo attorno con gli occhi aperti e con entusiasmo, ci accorgiamo di essere circondati da realtà bellissime proprio perché “diverse”, anche se questo termine comincia a darmi un po’ alla nausea. Forse, se parlassimo meno di diversità o di normalità sarebbe tutto più facile. La leggerezza che utilizzo fa parte del mio essere e aiuta i miei protagonisti a superare le difficoltà con lo spirito giusto. Grazie ancora!