conchiglie di mare
Giovanni stava lì, sulla soglia della porta pensando all’inferno. Come saette, sottili vene violacee pulsavano discontinuamente sulle sue tempie svuotate. Sudava da tutte le parti e questo lo irritava ancora di più, perché significava che stava perdendo il controllo sull’intera faccenda. Girò il pomello e varcò infine la soglia della porta senza alcuna esitazione. Si avvicinò ai piedi del letto, sfilò con un gesto fulmineo il cuscino da sotto la testa e gli prese il respiro. Si era immaginato una lotta, un’opposizione primordiale all’appello della morte, ma ci fu solo un tiepido gemito. Forse stava già sognando il mio arrivo, pensò. Ritrasse il cuscino dalla sua faccia come fosse una pistola, fece due passi indietro e contemplò per un istante la giovane figura oramai morente; aveva ancora la bocca aperta, come un pesce fuori dall’acqua. Gli chiuse la bocca e ripose il cuscino sotto la sua testa.
Decise di iniziare dalla cartilagine laringea, la quale già ad una prima analisi sembrava avesse la consistenza desiderata. Affondò i denti e strappò con decisione la carne con un movimento laterale. Nei suoi morsi c’era esperienza, metodo, come se lo avesse fatto già un milione di volte. Rosicchiò infine le orecchie, senza alcuna avidità, perché si sentiva già sufficientemente sazio. Una volta finito, chiuse la porta dietro di sé e tornò a letto, nella loro stanza, facendo attenzione a non svegliarla. Si sdraiò a pancia in giù e, con il cuscino premuto sulle orecchie, gli parse di udire il suono della marea.
Da piccolo quel suono lo cercava sempre nelle grosse conchiglie di mare. Nella casa dove era cresciuto, Giovanni aveva uno scaffale pieno di quelle conchiglie. Per tanto tempo non aveva saputo chi gliele portava, però. La madre, una puttana di basso rango, una volta gli aveva raccontato che uno dei suoi tanti clienti faceva il pescatore, e che non era totalmente da escludere la possibilità che fosse proprio il padre di Giovanni. Faceva fatica a ricordarsi di quei giorni. Ogni volta che provava a ricordare, le immagini divenivano sempre più confuse. Aveva sempre l’impressione di vedere ogni volta una faccia diversa, ma in realtà quella che vedeva nei sui ricordi era la solita faccia dai lineamenti indistinti, coperta da fazzoletti di ombre nere. C’era questa figura, un uomo, di cui stranamente ricordava gli abiti sciatti, sporchi, che portava con sé grossi sacchi pieni zeppi di pesce, solitamente all’alba, quando la madre era fuori a battere. Li poggiava con fare brusco sul tavolo della cucina, aspettava che il ragazzo venisse a prenderli e poi andava via. Giovanni aveva ormai imparato a memoria il suono prodotto da quei movimenti precisi; dallo sbattere della porta agli stivali di gomma che strisciavano per terra producendo un rumore greve. E così, anche quando dormiva profondamente, non appena sentiva quei rumori si alzava in preda all’eccitazione per andare a controllare cosa avesse portato. La puzza gli opprimeva le narici, ma la curiosità era più forte. Dai grossi sacchi sgorgava un liquido multicolore che raggiungeva velocemente il pavimento di mattonelle azzurro lucido. Giovanni sapeva perfettamente che quel liquido era il sangue misto alle feci dei pesci catturati e uccisi brutalmente. Tuttavia, per lui quella vista era ben lontana dall’essere raccapricciante e disgustosa; era altresì un divenire di colori. Giovanni osservava stupito il rosso del sangue fondersi armoniosamente con il marrone delle feci e dar vita all’arancione, mentre l’azzurro del pavimento, come fosse il cielo, si tingeva lentamente di un grigio intenso; era come osservare in prima persona l’avvento prorompente dei colori autunnali. L’uomo, che stava sempre eretto vicino al lavabo della cucina, lo guardava con un misto di orgoglio e timore.
«Aprili!» gli diceva.
Così, aiutandosi con una sedia, Giovanni apriva quei grossi sacchi e ci infilava le mani alla ricerca delle famose conchiglie, che non mancavano mai. Poi le prendeva, le passava sotto l’acqua corrente per pulirle dal sangue e infine le asciugava.
«Il sangue ti impressiona?» gli domandava l’uomo prendendogli il mento.
«No!»
«E perché non ti impressiona?»
«Perché nel sangue di ogni creatura c’è vita.»
«E nel nostro sangue c’è saggezza, ragazzo!» lo ammoniva aggrottando la fronte, preoccupato. «Siamo saggi e sappiamo come preservare la vita. E sai cosa devi fare quando pensi di desiderare il sangue di altri?» si inginocchiava e lo afferrava con fermezza per le braccia. «Devi prendere queste conchiglie e avvicinarle al tuo orecchio, ascoltare il suono della marea. Questo ti aiuterà a controllare la fame, capito?»
Quando l’uomo chiudeva la porta dietro di sé, Giovanni ritornava su in camera, addormentandosi nuovamente con il suono sprigionato dalle conchiglie di mare. Dell’uomo che un giorno gli confidò essere suo padre, non aveva saputo assolutamente niente per tanto tempo; cosa facesse nella vita, dove vivesse o se avesse un’altra famiglia. Lo portava, di tanto in tanto, a pescare con lui. Poi lo riaccompagnava a casa, sempre quando la madre era fuori a lavorare.
La sveglia suonò poco dopo, puntuale, e Giovanni, ancora con la testa affondata nel cuscino, immaginò la stanza come un acquario di acqua dolce contenente pesci tropicali. Da qui a poco moriremo tutti, pensò. Si sbalordì di quel pensiero. Tirò quello strano pensiero dal sacco senza una ragione apparente. La testa gli pulsava, si sentiva stanco, come se non avesse dormito affatto. Credette di aver fatto un sogno, ma non riusciva a ricordarselo. Si alzò, trascinandosi con fatica al bagno, e prima di aprire l’acqua fredda e mettersi sotto la doccia osservò assorto la porta accanto. La aprì: una strana sensazione attraversò il suo corpo ancora rigido. Si trattava forse di un dejà vu? Non poteva dirlo, ma era convito di essere stato in quella stanza la notte precedente. Aveva forse camminato nel sonno come un sonnambulo? Entrò nella stanza e vide i pennelli e i fusti di pittura aperti, i fogli di giornale vecchi che coprivano tutta la superficie del pavimento. Doveva ancora metterci mano, ma quella sarebbe stata la stanza del bambino. Carla, la moglie, aveva fatto il test di gravidanza un mese prima. All’improvviso il corpo si congelò, l’ombra della notte precedente lo trafisse come una freccia sulla schiena. Capì che aveva sognato di mangiare il proprio figlio.
Andò in bagno, fece scorrere l’acqua per un po’; il fruscio lo rilassava e lo aiutava a non pensare. Mise la testa sotto l’acqua fredda e si lavò per bene. Adesso aveva le idee chiare, così per lo meno sembrava; i muscoli erano tutti tirati, anche quelli del viso, perfettamente allineati da ostentare un’espressione di sicurezza. C’era fiducia nel suo sguardo, nel suo volto. Si vestì, senza fretta, perché nel mentre stava elaborando un piano, quindi andava bene anche così, a questa velocità. Un piano era essenziale. Stava per mettersi le scarpe, che già sentiva di averne uno in mente. Lo elaborò più volte nella sua testa, lo ripeté a sé stesso muovendo passivamente le labbra. Funzionava. Controllò l’orologio e pensò: a quest’ora Carla deve stare ancora dormendo.
Scese le scale e andò in cucina, che era la stanza della casa più insonorizzata, fece una chiamata, quella più importante.
«Pronto?» disse la voce all’altro capo del telefono.
«Sono io.»
«È già successo?» chiese, cercando di non manifestare alcuna apprensione nella voce.
«No!» disse Giovanni con un sussulto isterico. «Ho sognato di farlo, però. È così che inizia?»
«Non lasciare che la paura prenda il sopravvento. Ho cercato di insegnarti questa lezione da quando ho scoperto che eri mio figlio. La fame… devi solo controllarla.»
«No, non penso di poterci riuscire» disse con la voce mozzata.
«Smettila di frignare! Non farai del male a tuo figlio, te lo posso assicurare. Possiamo controllarla. Nel nostro sangue c’è saggezza, ricordi?»
Riattaccò il telefono bruscamente. Fece l’ultima chiamata, senza pensarci due volte. Stia fermo lì e non si muova, gli dissero dall’altro capo del telefono. Giovanni fece esattamente quello che gli era stato appena detto, rimase fermo e non si mosse da lì. Si sdraiò a pancia in giù e li aspettò. Erano vicini, stavano arrivando, poteva sentire il rumore stridente delle sirene. Tappò le orecchie con entrambi le mani, tanto forte da dissolvere il boato di quello che adesso considerava il suo infausto destino e sperando di poter ascoltare per l’ultima volta il suono della marea.
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Quanti bambini rischiano ogni giorno di essere divorati? Me lo chiedo spesso.