Cura o tortura?
Serie: Diario di un folle bipolare
- Episodio 1: Cura o tortura?
- Episodio 2: 48 ore di follia
STAGIONE 1

Un dottore di mezza età, con folti capelli ricci e un’espressione tranquilla, mi si avvicina; è l’unico tra tutti a non indossare il camice, e questo mi rassicura. Il suo volto è sereno, e le sue parole hanno un tono di comprensione. La distanza tra me e loro sembra ridursi. Sfiora delicatamente la mia mano: “Sa dove si trova? Come si sente?” Mi domanda guardandomi.
Non riesco a rispondere; i miei pensieri sono disordinati, nella mia testa c’è un vortice. Il dottore mi guarda e, con voce pacata, ripete la domanda: “Sa dove si trova? Si ricorda cosa è successo?” Lo guardo e, dentro di me, sento che lui è l’unica possibilità che ho per essere liberato, ma le uniche parole che riesco a pronunciare sono: “Dottore, vi prego, liberatemi, non ricordo come sono finito qui, sicuramente ci deve essere un errore, dove sono?” Faccio fatica a parlare; sono imbottito di farmaci che mi vengono somministrati a mia insaputa, e questo mi spaventa, anzi, mi terrorizza. Un altro dottore, ben diverso dal primo, mi guarda, sorride e risponde lentamente: “Lei si trova in un SPDC: Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura”. Nella mia testa rimbomba la parola “psichiatria.” Guardo il dottore senza camice negli occhi; lo fisso, come se, con il mio sguardo, potessi fargli capire la mia sofferenza. Provo a restare calmo, ma non ci riesco, e comincio di nuovo a urlare: “Assassini,maledetti criminali! Quale cura? Io sto male, e voi mi state uccidendo!” Il dottore più anziano mi guarda, sorride e, con un ghigno, replica: “Bene, avevo ragione” commenta ai suoi colleghi. “Penso che rimarrà legato ancora per molto, fino a quando non deciderò che non è più pericoloso.” Si avvicina soddisfatto, controlla la flebo e se ne va. Mi ritrovo di nuovo solo con me stesso. La paura mi assale, e dentro di me mi sento morire. Anzi, preferirei morire piuttosto che essere prigioniero del mio più grande incubo. Sono nelle mani del nemico, caporali travestiti da dottori, carnefici della mia persona. Provo a ricordare cosa sia successo, cercando di ricostruire il motivo di tanta sofferenza. Ricordo l’immagine di mio padre che ripeteva che avevo bisogno d’aiuto. Faccio mente locale, ma ho solo flashback confusi: le sirene dell’ambulanza, la polizia che mi ripete di stare calmo, e poi più niente. La mia mente sembra essere stata resettata senza avere effettuato il backup. Sento la mia vescica
pulsare, ma non riesco a urinare, così legato. Dopo lunghe ore, un infermiere alto e robusto, con occhiali, che lo fanno sembrare il protagonista di un thriller, entra per cambiare la flebo e iniettarmi altri farmaci. Con le poche forze che mi restano, cerco di ribellarmi, convinto di essere ancora padrone del mio corpo. Chiedo di andare in bagno. Lui mi guarda e sorride, poi mi porge un pappagallo, ma non riesco a liberare la vescica così legato. Provo ad istaurare un dialogo. Un dottore di mezza età, con folti capelli ricci e un’espressione tranquilla, mi si avvicina; è l’unico tra tutti a non indossare il camice e questo mi rassicura. Il suo volto è sereno e le sue parole hanno un tono di comprensione. La distanza tra me e loro sembra ridursi. Sfiora delicatamente la mia mano e mi domanda: “Sa dove si trova? Come si sente?” Non riesco a rispondere; i miei pensieri sono disordinati, nella mia testa c’è un vortice. Il dottore mi guarda e, con voce pacata, ripete la domanda: “Sa dove si trova? Si ricorda cosa è successo?” Lo guardo e, dentro di me, sento che lui è l’unica possibilità che ho per essere liberato, ma le uniche parole che riesco a pronunciare sono: “Dottore, vi prego, liberatemi.Non ricordo come sono finito qui, sicuramente ci deve essere un errore, ma vi supplico spiegatemi dove sono.” Faccio fatica a parlare; sono imbottito di farmaci che mi vengono somministrati a mia insaputa e questo mi spaventa, anzi, mi terrorizza. Un altro dottore, ben diverso dal primo, mi guarda, sorride e risponde lentamente: “Lei si trova in un SPDC: Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura.” Nella mia testa rimbomba la parola “psichiatria.” Guardo il dottore senza camice negli occhi; lo fisso, come se, con il mio sguardo, potessi fargli capire la mia sofferenza. Provo a restare calmo, ma non ci riesco, comincio di nuovo a urlare: “Assassini, maledetti criminali! Quale cura? Io sto male, e voi mi state uccidendo.” Il dottore più anziano mi guarda, sorride e, con un ghigno, replica: “Bene, avevo ragione,” commenta ai suoi colleghi. “Penso che rimarrà legato ancora per molto, fino a quando non deciderò che non è più pericoloso.” Si avvicina soddisfatto, controlla la flebo e se ne va. Mi ritrovo di nuovo solo con me stesso. La paura mi assale, e dentro di me mi sento morire. Anzi, preferirei morire piuttosto che essere prigioniero del mio più grande incubo. Sono nelle mani del nemico, caporali travestiti da dottori, carnefici della mia persona. Provo a ricordare cosa sia successo, cercando di ricostruire il motivo di tanta sofferenza. Ricordo l’immagine di mio padre che ripeteva che avevo bisogno d’aiuto. Provo a ricordare, ma ho solo flashback confusi: le sirenedell’ambulanza, la polizia che mi ripete di stare calmo, e poi più niente. La mia mente sembra essere stata resettata senza avere effettuato il backup. Sento la mia vescica pulsare, ma non riesco a urinare, così legato.Dopo lunghe ore, un infermiere alto e robusto, con occhiali che lo fanno sembrare il protagonista di un thriller, entra per cambiare la flebo e iniettare altri farmaci. Con le poche forze che mi restano, cerco di ribellarmi, convinto di essere ancora padrone del mio corpo. Chiedo di andare in bagno. Lui mi guarda e sorride, poi mi porge un pappagallo, ma non riesco a liberare la vescica così legato provo a instaurare un dialogo. “Perché non rimandi in bagno invece di torturarmi? Prometto che poi tornerò a letto,” protesto. Lui mi guarda per un istante e risponde: “A chi vuoi darla a bere? Pensi veramente che io ti creda? Se stai legato al letto, un motivo ci sarà,” dice con tono deciso e un briciolo di ironia. Cerco di replicare: “È proprio questo che non capisco: quale motivo ci può essere per legare una persona a un letto?” Mi rendo conto di avere ragione, non una volta, ma cento, su come il sistema psichiatrico sia in realtà un sistema repressivo strategicamente studiato per annullare ogni capacità decisionale dell’individuo. Mi convinco che non sono altro che assassini. Chiedo aiuto, e loro mi uccidono. La mia domanda è: quanto ancora resisterò? Intanto il dolore al ventre cresce sempre di più. Le fitte sono così intense che lacrime di dolore scendono sul mio viso, e proprio in quel momento entra quel sadico infermiere, tanto grosso quanto antipatico, con un catetere in mano. Con un ghigno di soddisfazione mi dice: “Se non vuoi fare da solo, ti aiuterò. Vedrai, non ti farà male,” dice con voce ironica, sapendo di mentire. Provo a replicare urlando: “Non mi toccare, non ho fatto niente!” Poi un dolore lancinante percorre tutto il mio corpo inerme, immobilizzato su quel letto. “Vedi? Cosa ti avevo detto?” Mi guarda soddisfatto mentre si allontana dalla stanza. Il dolore è così intenso che perdo i sensi. Una voce di ragazza mi sveglia, mi guarda e mi sorride a capelli mezzo biondo cenere e l’ altra metà rasata, per un attimo mi scordo di essere contenuto e mi accorgo di essere vivo.
Serie: Diario di un folle bipolare
- Episodio 1: Cura o tortura?
- Episodio 2: 48 ore di follia
Un loop veramente terribile e angosciante. L’incubo peggiore, il miglio soggetto per un horror. Non vorrei essere quella su quel letto. Scritto molto bene. Al prossimo episodio!