
DI PIPE, DIAVOLI E PIATTI
Mio nonno Pietro, conosciuto poi come Renato, è stato il primogenito maschio della famiglia.
Prima di lui, Maria aveva dato a Domenico sei figlie, tutte femmine. Nel 1903 Diomira, nel 1905 Desilva, nel 1908 Gina, nel 1910 Giovanna, nel 1913 Giuseppa, nel 1916 Fernanda. Il 1918, il 1921 e il 1924, furono infine gli anni di tre maschi: Pietro, Aldo e Lamberto.
Di queste zie materne, a me resta poco più che il nome: muovendo da racconti indiretti, le idee che ho di loro non possono che essere fumose, parziali. Ripensandoci, a volte, credo di averne voluto afferrare le diverse nature, squadrando le immagini sui loro loculi cimiteriali.
Quella di Giovanna è delimitata da una sottile cornice di forma ovale, placcata in argento. È ritratta a tre quarti; il capo, leggermente inclinato, rivolge all’osservatore la punta del mento in una posa di consapevole signorilità. Nel complesso, il suo è un aspetto decisamente matronale, siede impettita, sfoggiando una chioma scura, folta e vaporosa.
A conferma delle impressioni, nonna la ricorda come una donna estremamente attenta alla cura della propria persona, al punto che, malgrado le ristrettezze economiche, di fronte ad un’entrata inaspettata, il parrucchiere pare restasse per lei una priorità. Il che sembra altresì accendesse la più viva irritazione nella maggiore delle sorelle, caratterizzata più volte a partire dalla sua spiccata oculatezza.
Come di consueto, a lato della fotografia, la pietra tombale riporta nome e cognome della defunta, seguiti dalla dicitura “vedova Donati-Guerrieri”. Appena un po’ più a sinistra, ecco dunque che quel generico “Donati-Guerrieri” trova volto e nome in un loculo in tutto e per tutto somigliante a quello della consorte.
La grana dell’immagine frontale rende difficile cogliere le eventuali particolarità della figura; in cima alla fronte si distingue uno sparuto ciuffetto di capelli ritti, gli occhi sembrano quasi serrati, come fossero infastiditi dalla luce. Il nome è Francesco. Per quanto sia capitato di rado, in casa non l’ho mai sentito chiamare in questo modo, bensì con il diminutivo di Checchino.
Sul suo conto, la notizia più sorprendente che mi sia giunta alle orecchie è quella con cui lo si diceva emigrato in Africa per fabbricare cappottini per cani. Naturalmente, so bene quanto la cosa possa risultare inverosimile, non a caso, l’ho preventivamente presentata come “sorprendente”. Io stessa non sono riuscita a cogliere un nesso tra Africa e indumenti canini. Ad ogni richiesta di delucidazioni, nonna rimanda a voci non meglio precisate.
– Che ne so?! L’ho sempre sentito dire.
Ad ogni modo, per quanto sia di dubbia attendibilità, la diceria doveva ammiccare ad una probabile incapacità del personaggio di investire proficuamente le proprie risorse.
Il che, ammetto possa valere da consolazione per quanti si sentono esistenzialmente smarriti: dopo tutto, in una certa misura, c’è chi lo rimane a lungo, barcamenandosi alla bell’e meglio per tutta la vita.
Tralasciando considerazioni più profonde, proseguirei aggiungendo che, lungi dal toccare il solo Checchino, un chiacchierio di voci altrettanto bizzarre ne circondava l’intera famiglia.
In origine benestanti, i Donati-Guerrieri erano proprietari di un buon numero di terre e risiedevano in un castello nei pressi di Mongiovino. Magari, ad avvalorare la pubblica idea di una loro nobiltà potrebbe essere stata proprio una simile abitazione. Sta di fatto che, per lo meno un tempo, lo stesso doppio cognome era indice di un’elevata estrazione sociale. Non a caso, si racconta che la famiglia l’abbia sempre custodito gelosamente, rifiutandosi di cederlo in cambio di denaro. In effetti, pare fosse ancora in voga una certa pratica di vendita dei cognomi; a riguardo, non ho fonti che ne spieghino le dinamiche, ma suppongo la si possa immaginare come una trattativa di titoli, volta ad acquisire col soldo quanto non si avesse ereditato col sangue.
Con ciò, colgo l’occasione per puntualizzare che la mia mancanza di riscontri documentari è da considerarsi obiettivamente generalizzata. I fatti di cui intendo scrivere devono essersi svolti grossomodo nella prima metà del Novecento e se oggi ne sono venuta a conoscenza è stato solo per un tortuoso passaparola generazionale. Quanto vado a riportare sulla pagina, potrebbe non essere altro che il prodotto di ripetuti travisamenti, quali sono quelli che si verificano di continuo nel gioco del telefono senza fili. Nondimeno, il risultato si compone di voci salaci e quadretti pittoreschi tali che sarebbe un vero peccato non tramandare.
Come già accennato, oltre che per l’agiatezza, la famiglia Donati-Guerrieri mi è stata ricordata per una peculiare eccentricità. In particolare, un aneddoto ne combina la stravaganza ad un vacuo sfoggio di ricchezza. I racconti riferiscono che, al termine di ogni pasto, per non dover far fronte al fastidio di dover rassettare, piatti e argenteria venivano lasciati volare liberi fuori dalle finestre del castello.
Erano poi i contadini al servizio dei signori ad accalcarsi tra i cocci, in cerca di qualche pezzo di valore da poter rivendere.
Alla tavola tanto sbrigativamente sgombrata, in principio sedevano sei figli: oltre a Checchino, il gruppetto contava tre fratelli e due sorelle. Salvo che del più grande, Giulio, degli altri non so indicare i nomi, ma per uno di loro posso riportare la formuletta con cui viene puntualmente rievocato, ossia quella de “il matto dei Donati”.
Ora, il fatto che lo si chiami matto nel contesto della più vasta stranezza familiare, presumo avverta di una sua qualche eccezionalità in merito, come se lo si incoronasse il più matto tra i matti.
In effetti, quelle sul suo conto sono di gran lunga le storielle più assurde. Quando bighellonava con aria svagata per le vie, era soprattutto un certo ometto ad aver ragione di temerne il passaggio. Di lui, si ha la sola notizia che fosse un fumatore di pipa e che, vedendo il matto avvicinarsi, fosse solito proteggerla nel guscio delle mani accoppiate a conca. La curiosa manovra difensiva ne anticipava una altrettanto singolare del Donati che, per un suo ghiribizzo alla Guglielmo Tell, sembra si divertisse a sparare alla pipa, stretta tra le labbra della povera vittima. Naturalmente, era abbastanza accorto da provvedere subito affinché il giochino potesse ripetersi senza intoppi nei giorni seguenti; il che significa che si premurava di risarcire il malcapitato perché non lo lasciasse mai a corto di bersagli. Dicerie di mandibole o di nasi rotti non ce ne sono, per cui il matto poteva forse vantare tra le sue capacità un’ottima mira. D’altra parte, la passione venatoria avrebbe dovuto mantenergliela in allenamento.
Proprio attorno a questo suo specifico interesse ruota il racconto di un inconcludente rituale che lo avrebbe avuto per protagonista. Ebbene, pare che durante la stagione di caccia, il personaggio fosse solito propiziare le battute giornaliere conferendo col diavolo. Di buon mattino, prendeva posto a cavalcioni di una botte di vino e domandava al diabolico interlocutore un computo esatto dei capi che avrebbe mietuto. In genere, veniva allettato da elenchi piuttosto generosi: un regale maschio di fagiano, una beccaccia, qualche tordo. Paradossale sin dalla nascita, la faccenda svelava poi un risvolto comico tutte le volte (ed erano molte) che il cacciatore rincasava con il carniere vuoto. Con ogni evidenza, il sovrannaturale consulente si deliziava in un perpetuato inganno, perfettamente calzante all’indole truffaldina che si attribuisce di norma al diavolo. Domandarsi infine il motivo per cui il Donati si ostinasse in quel confronto non credo abbia molto senso. D’altronde, si è parlato di un matto; e il titolo era da mantenersi con la dovuta serietà.
se ne potrebbe fare il primo capitolo di una saga sulla famiglia Donati-Guerrieri, ma hai già dato una quantità di informazioni che chiariscono perfettamente il particolare zoo umano di cui racconti.
Fra i lanciatori di piatti e gli sparatori di pipe non si sa chi scegliere: per non parlare di cappottini per cani in Africa. Infine, il più matto di tutti porta un titolo che gli spetta di diritto, a differenza del resto della famiglia dei cui quarti di nobiltà si potrebbe dubitare.
L’ho letto con grande piacere il virtù del tuo stile sciolto e piacevole, molto elegante. Spero di leggerti ancora.
Ho letto con molto piacere questa narrazione di un quadro familiare a tratti ironica, sicuramente nostalgica. Innanzitutto l’appunto sul tuo stile che mi appare impeccabile ed elegante. Mi soffermo poi sull’uso della prima persona, secondo me assolutamente indovinato che lascia percepire a chi legge la familiarità fra l’autore e coloro di cui si parla. Brava
Mi fa davvero piacere che le sia piaciuto e che abbia speso queste belle parole a riguardo.
Spero di confermarle nei prossimi racconti!
Sicuramente 😊
scritto molto bene e con una ironia affettuosa ma non per questo meno pungente. Un tono narrativo con un filo di aristocratica albagia ben in linea con la sconclusionata e a sua volta aristocratica famiglia che ne è protagonista. Occhio all’impaginazione.