Diario notturno, pagg 20

Serie: Frammenti di nero


Pensieri vari e ricordi

Stavo seduto su uno sgabello vicino al banco del barista, roteavo il bicchiere, attento a non spandere alcun liquido al di fuori. Ora che non avevo più nessuno con cui parlare, mi annoiavo, e non poco. Provavo dentro di me una sensazione di vuoto, come se tutto ciò che avveniva attorno a me non era importante. Seguivo solo il corso dei miei pensieri, e notavo che la mai fantasia seguiva uno strano decorso, tipico di quei momenti in cui non avevo proprio nulla che potesse intrattenermi più. Era andato via pure l’ultimo ragazzo. Mi sarei pure girato per vedere chi fosse rimasto, ma ero consapevole di essere forse l’unico che non aveva voglia di andare a ballare. Non mi andava, e non mi sorpresi. Sono sempre stato un amante delle conversazioni nella quiete, magari durante una passeggiata. Eppure, avevo deciso di andare lì, quella sera. Era un club, chiamato Lonely Hearts Club. Da qualche parte in Galles, direi, ma non ne sono sicuro. Alloggiavo lì vicino durante il mio periodo di erasmus. Le mie esperienze, riducibili a un numero misero, mi avevano portato a capire che non avrei mai dovuto aspettarmi di trovare qualche cosa di valore in quelle esperienze casuali. Spesso ho detestato persone perché mi ero detto che fossero molto di più di quanto fossero nei fatti. Ed andai comunque al club, magari perché avevo bisogno di un po’ di compagnia in una sera primaverile, oppure perché avevo capito che non potevo consumare me, i miei desideri e le mie speranze in una stanza minuscola. Avevo visto vari ragazzi, alcuni carini, altri davvero alla mano, eppure, a lungo andare, ogni possibilità si bruciò. Uno dopo l’altro mi lasciarono con l’amaro in bocca. Rimasi a lungo seduto sullo sgabello, come se dovessi starmene lì a giudicare quelli che passavano davanti a me. Era strano, dico, interagire con un numero copioso di persone in un ridotto arco di tempo; non conobbi in profondità nessuno, però. Ogni tanto mandavo giù o un bicchiere di acqua oppure del gin. Ogni canzone scandiva il passare del tempo, e vedevo come le persone rimbalzavano dalla pista all’angolo del barman, magari passando pure vicino a me. Alcuni mi guardavano con occhi brilli, chi con occhi alienati e altri erano semplicemente assenti. Può darsi che anche loro fossero completamente altrove. Eppure, li vedevo come si strusciavano fra di loro. Non ce la facevo ad assomigliare a loro. Confesso che ho sempre avuto paura di essere giudicato nelle occasioni in cui si doveva ballare. Non era nemmeno il tipo di musica che mi garbava. Quindi perché rimanevo? Forse ero davvero come quei ragazzi che tanto criticavo? Disperato al punto da fare qualcosa che non mi piaceva? Lo ero, sì, perché davo troppo valore alla carne e all’ebbrezza. Mi sarebbe bastato uscire un attimo per potermi riavere da quello stato di sopore, e poteva darsi che non fosse adatto a me, quel posto. Epperò, rimasi, e ancora, ancora e ancora. Fissavo a lungo quei volti che si guardavano, occhi negli occhi, e credevo di invidiare l’amore che mi sembrava di cogliere fra loro. Più interiormente, sapevo che volevo soltanto delle sensazioni più forti, e pure quell’idea di amore a cui mi ero abituato a fantasticare a riguardo si da bambino. La vita mi aveva trascinato su strade tortuose per potermi insegnare che quei sentimenti come l’amore e l’odio, in realtà erano molto più complessi di quanto potessi credere; da quella varietà scaturiva che l’amore era difficile da trovare, ancora più arduo da prendere e nutrire. Quegli sguardi non erano amori, non erano sorrisi desiati ma il risultato dell’euforia, l’ebbrezza. Ho già detto che non so gestire l’ebbrezza? E quindi, a forza di guardare quelle facce che mi ricordavano non solo che no potevo avere ciò che volevo, ma pure che non sapevo esattamente cosa io bramassi, mi dovetti accontentare. E’ amaro dover constatare che molte persone nella vita non trovino l’amore, ma, anzi, si facciano bastare ciò che trovano: ancora peggiore è rendersi conto che pure in te possa nascere un desiderio estremo di porre fine a una tortura psicologica, dandoti alla minore soluzione. Era un club, e in quanto tale c’erano pure delle stanzette e dei camerini di modeste dimensioni dove ci si poteva appartare in magari due o tre persone alla volta. Percorsi quel lungo corridoio ai cui lati erano allineati vari camerini con le tende rosse tirate come a dire: “fatti gli affari tuoi”. Eppure, potevi sentire e immaginare con dovizia di particolari esattamente ciò che facevano dietro. Perché alludere e basta? Era ovvio che facevano sesso, e in ogni stanza le persone seguivano i loro desideri, magari già dimentichi di ciò che si erano detti. Prosegui avanti io stesso, lungo il corridoio. Era lungo, mi pareva. Persone che si accasciavano alla esili colonne che separavano i camerini laterali. C’era fra di loro un ragazzo che… beh, era adatto a ciò che volevo io. Gli andai contro. “Sono il tuo tipo, o comunque ti va bene?” gli chiesi, alludendo al mio corpo. Mi guardò stupito, pur non dando segno di rifiuto. Mi squadrò per un attimo, e poi diede cenno di sì. “Come ti chiami?” “Non è importante. Con preservativo, vero?”. Sguardo che insinuava che non ci potesse essere una risposta negativa. “Sì, va bene” Gesto che invitava a entrare nel camerino. C’era un buon profumo di luci rosse, e rimasi abbagliato dal bagliore di Gardenia. Conclusi l’affare con alacrità. E ora mi chiedo, è stato giusto trattarlo così? Mi dico che una persona menomata nella sua umanità non ha realmente bisogno di essere tratto in maniera umana, non finché non riesce a reintegrare le parti perse di sé. Eppure, come si può diventare umani senza esempi. O uno decide attivamente di riprendersi la propria umanità? Non capisco se sia stato troppo superficiale allora o se ora io mi stia tartassando i nervi con pensieri che dovrei allontanare da me perché inutilmente complessi.   

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