
Dipingere
Luca si sentiva come in una miscela di due stati.
Nel primo il fuoco che qualcuno aveva acceso tempo prima covava sotto la cenere e, di tanto in tanto, oltre al calore di fondo, lasciava partire brucianti, improvvisi lapilli.
Non si trattava più, per fortuna, della piaga permanentemente aperta nel fianco di Amfortas, piaga che spingeva il re sedotto ed infelice ad invocare la morte per esserne liberato, ma l’ardere continuo e le fitte acute erano una fatica permanente da sopportare e che assorbiva grandi energie.
Nel secondo stato lo spirito e la mente si trovavano sufficientemente liberi da non essere costretti a rinchiudersi nella contemplazione della propria sofferenza e nella ricerca dei sentieri tortuosi per eluderla. Allora tutto era aperto, teso a vedere, ad ascoltare il mondo fuori di sé, a costruire in esso i piccoli edifici della scrittura e della pittura. Il ricordo, come liberato dal suo doloroso fardello, diventava così il principale motore della sua creatività.
Era stata una giornata serena, proficua.
Si era svegliato con un’idea precisa in testa, con una immagine davanti agli occhi. Voleva rendere reale, far diventare oggetto, una emozione che gli tornava spesso al ricordo dei suoi primissimi anni, nella coscienza ancora informe che veniva scoprendo il mondo, luci ed odori soprattutto.
Una finestra aperta sul mare mosso ed intriso della sabbia sollevata dai movimenti nel profondo. Un mare giallo e verde, non in burrasca ma impegnato a rappresentare le tracce di essa. Un vento umido da sud veniva a colmare, agitando ancora le onde, i vortici aperti come ferite dalla tempesta.
Un mare di metà mattinata, quando il sole da poco riapparso distoglie i bambini dalla pineta per ricondurli allegri ai loro giochi sulla spiaggia. Di questa spiaggia dalla finestra non si doveva vedere nulla, al bordo inferiore il mare era già alto e questo accentuava l’essere fuori dal tempo, il sapore arcaico della immagine, come percepiva ormai la sua lontana infanzia. Un mare insomma come interno alla remota coscienza.
La finestra, metafora evidente di questa coscienza, era tanto presente nei pittori che Luca prediligeva e nei quali si riconosceva, sopratutto Savinio ed Hopper.
Sul davanzale avrebbe dipinto qualcosa, qualcosa di surreale, di irrealmente super reale. Nel dormiveglia aveva deciso per una credenza che aveva sempre rappresentato la casa, un bricco ed una zuccheriera metallici passati dal mito degli antichi ricordi all’uso come contenitori di pennelli ed acqua ragia.
Un grumo, in un angolo, dalle dimensioni stravolte, della sua vita passata e presente. Dentro lo specchio della credenza, omaggio al genio di Dalì, un abbozzato ritratto del pittore.
Si era svegliato convinto, desideroso di iniziare, quasi impaziente, ma aveva trattenuto questi impulsi. Sapeva che per fare le cose perbene doveva iniziare col piede giusto, doveva squadrare la tela, trovare le giuste dimensioni della finestra sulla stessa, trovare un punto di fuga che rendesse la pur semplice prospettiva coerente con la suggestione ricercata, così come la posizione del sole, non visibile, doveva produrre una altrettanto adatta posizione delle ombre. E poi, fatto questo, avrebbe potuto buttarsi nella ricerca delle forme e dei colori, degli impasti e delle sfumature.
Luca non era un pittore d’impeto, non di quelli che, dimentichi di tutto, si gettano nella loro opera, si fanno come travolgere da essa, emergono soltanto a lavoro compiuto e soltanto allora provano una sorta di appagamento e di sfinimento dopo avere partorito la creatura. Per lui tanto definita era la ispirazione originale, quanto paziente e faticosa la sua realizzazione. La chiarezza dell’idea lo spingeva a non rassegnarsi ai primi risultati decorosi. Non lasciava troppa autonomia alla materia ma ingaggiava con essa una contesa puntigliosa.
Nella sua fatica soffriva soprattutto le interruzioni.
Quando, raggiunto un risultato parziale, prendeva fiato e si allontanava dal cavalletto per distrarsi, faceva poi sempre fatica a rimettersi all’opera. Spesso, mescolando i colori, trovava dopo tanti tentativi la giusta miscela che però si rivelava di quantità insufficiente ed allora doveva ricominciare dubitando di ritrovare l’identico risultato.
Dopo diverse ore di questa sofferenza Luca si era trovato di fronte ad un dipinto che, pur avendo una sua autonomia, corrispondeva, nelle linee fondamentali, alle sue aspettative. Allora, conoscendo bene il rischio insito del protrarsi oltre il giusto limite del suo sforzo, si era messo a pulire accuratamente i pennelli e a riporre meticolosamente i tubetti dei colori secondo una disposizione un po’ maniacale, per averli pronti alla ripresa. Poi, usando uno straccio intinto nell’acqua ragia, si era pulito le mani, le braccia, le gambe che recavano le tracce policrome della sua fatica. Aveva fatto tutto questo come se compisse un rito, mentre non distoglieva lo sguardo dal quadro, prevedendo e pregustando il prosieguo del suo lavoro. Era accaldato e, uscendo rapidamente di casa, quasi in preda ad una frenesia, aveva inforcato la bicicletta, si era precipitato alla spiaggia e si era tuffato nell’acqua tiepida della sera. Faceva così le volte, non troppo frequenti, che alla soddisfazione psicologica per il suo lavoro sentiva il bisogno di unire il piacere fisico del corpo stanco e contratto, che si distendeva e rilassava immergendosi nel mare.
Clara fu contenta quando lui le telefonò per descriverle la giornata. Lei temeva sempre che Luca si lasciasse affondare nella spirale delle sue malinconiche elucubrazioni.
Lei fece a sua volta il resoconto della giornata nella quale erano accadute ugualmente cose minute ma importanti e significative.
Non ebbero bisogno di dilungarsi molto a spiegare ed illustrare, si conoscevano troppo bene ed era sufficiente riferire i semplici episodi perché ciascuno cogliesse pienamente il significato che essi avevano per ciascuno di loro.
Come al solito lei gli raccomandò di desistere da questa sua accorata solitudine non appena avesse colto i segni di un umore volgente al negativo. Non era obbligatorio, sosteneva, stare tutto il giorno in isolamento a guardare il mare, anche se la cosa appariva tanto letteraria.
Con quella telefonata Luca sentì di avere messo una cornice a quella giornata, di averne chiuso il cerchio.
Più tardi, quando era già buio, uscì per andare a bere una birra e magari incontrare qualche amico per una chiacchierata. Era soddisfatto e rilassato, sarebbe stato di compagnia.
Tuttavia qualcosa lo agitava nel profondo del suo animo, si sentiva come inappagato e questa sensazione si fece prepotentemente largo quando arrivò presso il piccolo molo oltre il quale, come in una cartolina un po’ dozzinale, la luna si specchiava sull’acqua scura e ferma. Sentiva il bisogno di raccontare ancora, di comunicare, di provare l’emozione legata al farlo, per scoprire ed essere scoperto, conquistare ed essere conquistato, sedurre ed essere sedotto. Altre volte lo aveva provato e ne sentì acutamente la nostalgia. Il fuoco che covava sotto la cenere mandava ancora qualche lapillo.
Pensò ad una donna da poco conosciuta, nella quale aveva percepito una interna dolcezza che sembrava esprimersi nella grazia della figura, nella delicatezza dei lineamenti, nella limpidezza della voce sottile.
Era lontana e chissà se e quando l’avrebbe rivista, ma la chiamò come aveva già fatto altre volte cercando di non esagerare. In realtà non sapeva ogni volta cosa dirle ma poi anche le frasi più banali sembravano con lei rivestirsi di qualche emozione.
“Ciao, sono Luca, ti disturbo?”
“Assolutamente no, ciao Luca, come stai?”, rispose la voce gentile e leggera.
“Se devo essere sincero, ho passato una bella giornata ma ho un po’ di malinconia e così ho voluto sentire una voce amica, spero di non disturbarti”, disse lui avvertendo tutta la banalità di quelle frasi e però senza riuscire e fare di meglio.
“No, no, non preoccuparti, mi fa piacere sentirti. Capitano questi momenti ma poi passano”.
Luca stava per aggiungere qualcosa che le facesse capire meglio di cosa si trattava, spiegarsi per andare un po’ più avanti nella loro conoscenza, quando sentì una vocina di bimba chiedere: “”Chi è?”
“Una amico di nonna”, rispose lei.
“Niki”
“Si, come Niki, il tuo cuginetto” e poi:
“Scusami Luca, devo metterla a letto, è già troppo tardi”.
“Ma figurati, scusami tu e…grazie della compagnia. Buonanotte”
“Buonanotte a te, ci sentiamo magari con più calma”, concluse la donna.
Lui si avviò verso lo chalet dove avrebbe incontrato i suoi amici, tra i quali lo stesso proprietario che gli misurava, quasi paternamente gli alcolici, a parlare del presente, del passato e sempre un po’ meno, fatalmente, del futuro.
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