Domenica maledetta domenica
Arrivai a casa poco dopo le 14:00.
Stremato da una settimana di compiti in classe, gli ultimi finalmente prima della fine delle lezioni da lì a un mese.
Quella mattina avevo matematica, e la sensazione era quella di avere fatto un buon lavoro.
Un lavoro che forse avrebbe ripagato l’ansia che mi attanagliava di continuo prima di ogni prova.
Un terrore strisciante che cresceva e prendeva vita ben al di là di un voto o un giudizio, che fosse brutto o che fosse bello.
Macché. Non l’avrebbe mai risarcita.
La scuola la vivevo molto male.
Me ne resi conto parecchi anni dopo, quando riuscii finalmente e dopo un percorso a dir poco accidentato, a dominare quelle angosce e a darvi il giusto peso.
Mia nonna fece irruzione in sala da pranzo con il mestolo in mano, e mi disse: “Mi sa che è morto uno”.
Si sarà senz’altro sbagliata, cosa vuoi che ne sappia lei di macchine.
Non ha nemmeno mai preso la patente.
Avrà visto un incidente, come tanti ne capitano, e le sarà partita la vena teatrale.
Ma mi bastò un’occhiata alle immagini che arrivavano dalla tv.
Sì. Era successo qualcosa di molto serio durante le qualifiche.
Soltanto pochi minuti dopo, il telecronista annunciò ufficialmente il decesso del pilota austriaco in ospedale.
Cazzo, non capitava da tantissimi anni.
Sconvolto e con l’elettricità in corpo mi attaccai allo schermo televisivo, e quando finalmente mi scese un po’ l’adrenalina la prima cosa che pensai fu: “E domani?”.
L’indomani avevamo dei biglietti per la curva della Tosa.
Mio zio era al lavoro, lo avrei sentito non prima delle sei del pomeriggio.
Cercai di mettermi sotto con lo studio: lunedì mattina avevo l’interrogazione di storia.
Corsa o mica corsa.
Fu una causa persa: continuavo a pensare a quella vettura blu scura e al casco del pilota che ballonzolava tre, quattro, cinque volte, molle come una bambola di pezza, prima di adagiarsi sull’abitacolo.
Cristo, la morte per me era qualcosa di mitologico.
Mi era stata narrata più volte dai miei genitori quella di Gilles Villeneuve, io ero troppo piccolo per ricordarmi e per capire.
Ricordavo invece bene quella di Elio De Angelis, il pilota pianista morto asfissiato in Francia durante prove private nel 1986 dopo un fuori pista tremendo.
Ma in gara non accadeva da dodici anni.
No, ormai non sarebbe successo più.
La sicurezza aveva forse reso le corse meno spettacolari, ma andava bene così.
E invece fu una doccia ghiacciata in un sabato torrido degno di un luglio inoltrato.
Sicurezza? Era stata soltanto fortuna.
E la fortuna prima o poi si paga.
Mio zio dopo aver esitato per un momento e senza tracce di entusiasmo, mi rispose di sì.
Saremmo andati.
In un altro contesto saremmo partiti di mattina presto e ci saremmo goduti appieno la gara e quell’estate che tanto bene prometteva.
Invece ebbi tutto il tempo di farmi una bella e meritata dormita.
In autostrada, la radio sparava What’s Up dei Four Non Blondes.
E poi ancora Life di Haddaway, All For Love di Bryan Adams Rod Stewart e Sting.
E Return To Innocence degli Enigma.
Mio zio pestava sull’acceleratore, aveva una macchina che si poteva definire, all’epoca, una piccola fuoriserie.
Parcheggiammo e camminammo per circa un chilometro e mezzo abbagliati dalla lucentezza verde dei vigneti.
Il pubblico aveva risposto con entusiasmo, nonostante ciò che era successo.
Sulla collinetta c’era il tutto esaurito, noi buttammo per terra il nostro telo di panno e ci sedemmo a sgranocchiare qualcosa protetti dagli occhiali da sole.
Una marea di gente, uno sbanderno come dicono da quelle parti lì, in mezze maniche e bandiere e cappellini rossi.
“Tragedia a Imola” era il titolo nero e cubitale della Gazzetta dello Sport schiaffato sul cruscotto di un’autoambulanza parcheggiata a pochi metri da noi.
Ma alla fine Ratzenberger era un pilota che non conosceva praticamente nessuno.
Debuttante, del tutto inesperto, sapevamo che la gente lo avrebbe dimenticato in fretta.
I nostri occhi erano per il campionissimo brasiliano che era obbligato a vincere, avendo già parecchi punti di distacco dal leader della classifica.
A me era sempre stato sulle palle, fin da quando ero bambino.
Ma da un paio di anni a quella parte sentivo una strana sintonia, una sorta di ispirazione che mi trasmetteva ogni volta che lo vedevo correre e lo sentivo, soprattutto, parlare.
Ne ammiravo finalmente la grandezza, senza i paraocchi del tifoso.
Certi amori, si dice, maturano tardi.
Io non seppi mai come sarebbe andata a finire.
“Senna è uscito alla curva del Tamburello”, gracchiò l’altoparlante.
Fuori anche oggi, accidenti.
E adesso per recuperare si faceva davvero dura.
Doveva sbaragliare il campo quell’anno, e invece terza gara di seguito senza punti.
Una stagione nata davvero male, la sua.
Poi il rombo delle monoposto nell’arco di un minuto svanì.
Avevano fermato la corsa.
Il pubblico si spostò di un centinaio di metri verso destra.
Assiepandosi nell’unico punto del circuito dove si aveva una piena visuale sulla curva del Tamburello.
E così feci anch’io.
Passarono i minuti, e mentre da lontano vedevamo i soccorritori darsi da fare, il silenzio si impadroniva dell’autodromo.
Scese l’elicottero.
Ci guardammo basiti e confusi, prigionieri di una distopia.
Chiamammo a casa, con uno dei primi telefoni cellulari.
“È messo male”.
Mia zia pronunciò soltanto queste tre laconiche parole.
Un applauso composto e lunghissimo accompagnò l’alzata in volo dell’elicottero.
La corsa riprese ma non interessava più a nessuno.
In macchina sulla strada del ritorno, la radio ci portava pessime notizie.
Se anche si fosse salvato, sarebbe diventato tetraplegico.
E con probabili danni a livello neurologico.
Fui investito da quelle parole, uno sberlone che mi avrebbe lasciato inebetito per settimane.
Il destino si era compiuto.
Il mondo era ritornato indietro.
E io troppo, troppo avanti per farmene una ragione.
Alle 18:40 la conferenza della dottoressa Fiandri fu l’ultimo pugno nello stomaco.
Fortissimo.
E piansi, eccome se lo feci.
Non me ne sono mai vergognato, in tutti questi anni.
E’ stato il picco emozionale dei miei anni adolescenziali.
Un rito di iniziazione, forse.
Ancora adesso, ogni primo di maggio, è come se qualcuno mi toccasse un nervo scoperto.
Anche nel 2024, quando sono tornato all’autodromo di Imola dopo trent’anni.
Il gran premio non è più quello di San Marino, ma dell’Emilia Romagna.
Le vetture sono quasi lunghe il doppio e borbottano.
Non urlano più.
Io ho la barba bianca e per una peritonite ho rischiato seriamente di andarmene proprio in un giorno di primo di maggio, pochi anni fa.
Ayrton, eroe e dannato rivale, ho avuto molta più fortuna di te.
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Ho avuto l’impressione che, l’evento tragico descritto, fosse il punto di una circonferenza spazio temporale da cui passano svariate rette, ossia episodi che si intersecano forse sotto forma di ricordo. Un testo non facile da portare a termine, eppure non mi ci sono staccata. Qusi che quella circonferenza si stendesse fino a diventare una linea che conduce alla conclusione.
Infatti ho anche scritto che è stato il picco emozionale dei miei anni adolescenziali.
Se io penso a quel periodo, a me viene in mente per primo proprio quell’evento lì cui ho preso parte mio malgrado.
Prima ancora di vicissitudini anche importanti che mi hanno toccato di persona.
Come se tutto fosse confluito lì, centrifugato e poi uscito fuori sotto altra forma.
Mi è piaciuto tantissimo. Scorrevole, arguta, mi piace la tua scrittura. Ho riso e pianto sommessamente, ho provato emozione. Ricordo molto bene i fatti da te narrati. Ho apprezzato la frase: “Certi amori, si dice, maturano tardi”, inserita nella narrazione in modo così elegante.
Ti ringrazio. Sapere che sono riuscito a far emozionare chi mi legge è una gratificazione che non ha eguali. Il racconto in realtà è un resoconto. C’ero veramente alla curva della Tosa il 1 maggio 1994. E quello a cui ho assistito mi è rimasto dentro. Una parte di me non l’ha ancora accettato del tutto. Vederlo in tv è un conto, dal vivo ti assicuro che è ben altro. Diventi in un certo senso parte di esso, come una sorta di fardello emozionale che non ti abbandona più. Per questo di tanto in tanto, soprattutto quando quella data si avvicina sul calendario, pensieri e sensazioni ormai lontani nel tempo si affollano ancora nella mia testa. E’ stato probabilmente assieme alla morte di Diana l’evento che più ha colpito l’immaginario della gente nel mondo di tutto quel decennio.
Certo, comprendo. Per trasmettere un’emozione in modo così efficace, bisogna averla vissuta. E’ curioso che tu abbia rischiato la vita nello stesso giorno anni dopo. Leggo volentieri gli alri racconti che hai pubblicato.
Sì, il 1.5.2018 ci è mancato proprio un pelo. Comunque sono contento se leggerai anche gli altri racconti. Sono di svariato genere. Mi piace spaziare dal grottesco, al gotico, all’introspettivo.