Duplice Ossessione

“Non è possibile, dottore! Non sarei mai capace di qualcosa del genere!” insisteva il paziente, un uomo di nome Marco che aveva sempre mostrato un comportamento rispettoso e riservato durante le loro sessioni. Tuttavia, l’evidenza era schiacciante – lettere minacciose, chiamate telefoniche tormentate nel cuore della notte, tutte con la stessa voce morbosa che somigliava in maniera inquietante a quella di Marco.

“Devi capire, Marco”, rispose lo psichiatra, il dottor Gianni Bellini, cercando di mantenere la calma nonostante la tensione crescente. “Hai bisogno di aiuto. Questo comportamento non può essere ignorato.”

“Ma dottore! Lo giuro sulla vita di mio figlio…non sono io!” Marco si alzò in piedi, i suoi occhi mostravano disperazione e incredulità. Una guardia gli intimò di sedersi.

Bellini scrutò l’uomo con attenzione, cercando indizi celati nella sua espressione. Forse tra le parole del suo paziente si nascondeva una sorta di verità. Decise così di approfondire ulteriormente l’argomento e condurre un’indagine. Per quanto gli fosse possibile.

La mattina seguente, Bellini decise di visitare la casa di Marco. Chiese le debite autorizzazioni e le ottenne senza intoppi. Voleva vedere se riusciva a trovare qualche prova che potesse dimostrare l’innocenza o la colpevolezza del suo paziente. La casa era una villetta a schiera, curata e ordinata. Non trovò nulla che potesse suggerire un comportamento ossessivo o violento. Sulle pareti erano presenti svariate foto di famiglia, sorrisi felici congelati nel tempo. Lo studio non mostrava tracce di lettere minacciose; solo fogli di carta sparsi e una penna d’oca. E alcuni appunti che Bellini portò con sé.

Bellini si trovava in una posizione difficile. Da un lato, l’evidenza indicava chiaramente Marco come possibile colpevole. Ma dall’altro, l’immagine della vita ordinaria del suo paziente sembrava contraddire questa affermazione.

Mentre il dottore si sforzava di elaborare una qualche teoria, decise di porre alcune domande a Marco riguardo alla sua vita. Voleva capire meglio il suo paziente e il motivo del suo comportamento.

Dopo alcuni minuti di conversazione, l’uomo iniziò a parlare del suo passato travagliato: l’infanzia difficile, l’abbandono dei genitori e la successiva adozione da parte di una nuova famiglia che non lo aveva mai accettato veramente.

“Quello che mi ha fatto cominciare a dubitare della mia sanità mentale è stato quando ho visto una persona che mi somigliava in un bar. Pensavo fosse solo una coincidenza, ma poi l’ho vista in giro sempre più spesso, come se mi stesse seguendo.”

Il racconto faceva emergere sospetti. Sembrava troppo strano per essere vero.

“Potrebbe anche essere solo la tua immaginazione creata dalla situazione emotiva,” suggerì Bellini delicatamente.

“Ma io tengo traccia di tutto!” ribatté Marco con angoscia. “Ho appunti su ogni apparizione e sono sicuro che qualcuno stia cercando di farmi impazzire.” I suoi occhi si riempirono di lacrime mentre parlava.

Marco era tormentato dal pensiero che qualcuno stesse deliberatamente cercando di rovinare la sua vita. Chiese aiuto per dimostrare la sua innocenza, ma ogni tentativo sembrava portare solo a un peggioramento della sua già delicata posizione.

Una sera, Bellini ricevette una chiamata anonima. Una voce tremante disse: “Dottore, ho sbagliato. Ho incastrato Marco.” Bellini rimase scioccato.

Mentre i dettagli dell’inganno venivano alla luce, Bellini non poté fare a meno di pensare all’ingiustizia subita da Marco. L’assurda accusa contro il suo paziente iniziava, finalmente, a sbriciolarsi.

“Chi è lei?” chiese Bellini, cercando di mantenere la voce calma e stabile.

“Sono un vecchio amico di Marco,” rispose la voce con un tono di rimpianto. “Non posso dire il mio nome, ma posso dirle che quello che ho fatto è stato terribile.”

La confessione scosse le fondamenta di tutto ciò che Bellini pensava di sapere. Ma anche se il misterioso autore delle lettere e delle telefonate minacciose era uscito allo scoperto, restavano molte domande senza risposta.

Perché voleva incastrare Marco? Che tipo di amicizia avevano? E soprattutto, perché aveva deciso di confessare tutto proprio ora?

Ancora una volta, Bellini si trovò a dover sistemare i pezzi di un puzzle. Mentre ascoltava la voce al telefono, cominciò a sospettare che ci fosse qualcosa di più profondo sotto la superficie.

Quando terminò la conversazione, si immerse nei pensieri tentando di dare un senso a tutto quello che stava accadendo. Una possibilità era che l’amico avesse sentito un senso di colpa travolgente. Un’altra era che ci fosse qualcosa di più sinistro dietro la sua confessione.

Le parole che aveva sentito al telefono continuavano a riecheggiare nella sua mente. Una parte di Bellini non poteva fare a meno di pensare che ci fosse qualcosa di poco chiaro.

Decise quindi di scavare più a fondo, cercando di risolvere il mistero che teneva in scacco Marco e le persone intorno a lui. Aveva bisogno di risposte, non solo per aiutare il suo paziente a tornare in libertà, ma per placare quella che, anche per lui, stava diventando un’ossessione. Arrivò persino a pensare che Marco e l’anonimo fossero la stessa persona. Ma mentre riceveva la telefonata misteriosa, Marco era in custodia. Non era possibile. Tutta suggestione. Una pericolosa suggestione.

Si rese conto che avrebbe dovuto affrontare quel vecchio amico per scoprire la verità. Ma come poteva trovarlo? Non aveva altri indizi, oltre alla voce al telefono. Si promise di trovare un modo, a qualunque costo.

Nel frattempo, iniziò ad esaminare con più attenzione gli appunti di Marco sulle presunte apparizioni. Forse tra quelle righe, nelle descrizioni degli eventi, nei luoghi e negli orari, avrebbe potuto trovare qualche indizio utile.

Mentre si immergeva nei dettagli frenetici scritti da Marco, Bellini iniziò a notare alcuni schemi ricorrenti. Le apparizioni sembravano concentrarsi in determinati luoghi e orari della giornata. Era come se il persecutore seguisse un programma preciso, come se stesse cercando di inviare un messaggio o preparare un incontro.

Inoltre, alcuni dettagli delle descrizioni iniziavano a delineare un’immagine più chiara dell’uomo misterioso. Le annotazioni sulla corporatura, l’abbigliamento e persino le espressioni facciali si rivelavano indizi fondamentali. Alcuni erano, precedentemente, sfuggiti a Bellini.

L’idea che l’aggressore fosse un vecchio amico trovava riscontro nelle parole del misterioso personaggio. La colpa e il rimorso rivelati dalla voce al telefono erano forse il risultato del tormento interiore di qualcuno che era stato vicino a Marco in passato. O magari nel presente.

Anche se sapeva che sarebbe stato difficile, Bellini non poteva ignorare la possibilità di poter riconoscere il persecutore suo e di Marco, da qualche parte. Si recò nei luoghi indicati dagli appunti del suo paziente e iniziò a osservare attentamente le persone intorno a lui.

Durante i primi giorni, non trovò nulla di significativo. Ma continuò a tornare nei luoghi delle apparizioni, sperando che il misterioso amico si presentasse.

Dopo numerose giornate concluse con un nulla di fatto, mentre era seduto in un bar vicino al parco dove Marco aveva detto di aver visto l’uomo per l’ultima volta, Bellini notò qualcuno seduto, da solo, al tavolo accanto al suo. Non gli diede molta importanza all’inizio, ma poi notò qualcosa di conosciuto nella sua espressione. Qualcosa che lo riportava agli appunti del suo paziente.

Si avvicinò discretamente e cercò di cogliere qualche altro indizio. L’abbigliamento era informale e piuttosto trasandato. Ma c’era ancora qualcosa nell’aspetto generale che ricordava a Bellini qualcosa.

Decise quindi di rischiare e si presentò all’uomo come uno psichiatra interessato ad avvistamenti segnalati nelle vicinanze, relativi a un caso di cronaca per il quale era in corso un’indagine. Chiese se fosse stato testimone di qualcosa o sapesse qualcosa in merito.

L’uomo sembrava nervoso e imbarazzato per la domanda improvvisa, ma alla fine rispose, con tono evasivo, che non aveva visto o saputo nulla. E di lasciarlo stare. Ma Bellini non si arrese facilmente e continuò a chiedere, cercando di trovare uno spiraglio nella sua resistenza.

Nonostante le sue insistenze, l’uomo continuò a negare qualsiasi conoscenza del mistero che riguardasse Marco. Ma la riluttanza ad affrontare il problema, sembrava tradire la paura di che cosa Bellini avrebbe potuto scoprire.

Un brivido percorse il dottore. Aveva visto quel tipo di reazione prima, nelle persone che cercavano disperatamente di nascondere un segreto o di sfuggire a una verità scomoda. Quella reazione, quel timore nascosto tra le parole dell’uomo, pareva confermare i suoi sospetti. Il tormentatore era lui, ne era certo. Il vecchio amico di Marco, che aveva confessato al telefono confidando nell’anonimato, era lui.

Prendendo coraggio, Bellini decise di affrontarlo direttamente, guardandolo negli occhi con determinazione. “Sei tu l’amico di Marco che mi ha chiamato, vero?” chiese con tono deciso.

L’uomo fu sorpreso dalla domanda e per un attimo sembrò essere sul punto di negare ancora. Ma poi il suo sguardo si abbassò e Bellini vide una luce di rassegnazione nei suoi occhi.

“Sì,” ammise finalmente. “Sono io.”

La confessione dell’uomo arrivò come un fulmine a ciel sereno. Era convinto che Marco lo stesse seguendo, che volesse rovinargli la vita. Era convinto di averlo visto nei dintorni di casa sua, che lo stesse spiando, tramando qualcosa. E questa ossessione per il suo amico lo aveva portato a minacciare l’unico che stava aiutando colui che riteneva un pericolo. Bellini. Non avrebbe dovuto aiutare il suo nemico. Colui che lo stava minacciando. Non gli era consentito. Il dottore e Marco andavano fermati, prima che si concretizzasse il piano criminoso. Bellini prese il telefono per comporre il numero della centrale di polizia. Appena in tempo.

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Discussioni

  1. Mi ha ricordato in un certo senso l’ultimo di Carrisi, con la figura dello psichiatra che a sua volta diventa vittima degli eventi e a tratti dubita della propria personalità. Scritto molto bene con ottimi dialoghi. Forse avrei preferito un finale meno didascalico e una maggiore suspense che mi lasciasse a bocca aperta, o anche forse con un dubbio atroce. Ma questa è la mia opinione da lettrice. Il racconto è appassionante.

    1. Come ho scritto anche nella risposta al commento di Giancarlo, mi sono trovato a corto di parole e mi sono reso conto di dovermi “sbrigare”. Ho preservato l’atmosfera (per quanto possibile) e ho sacrificato il finale, consapevole di essermi cimentato in una tematica dove 1.500 parole, forse, sono troppo poche. Ma la sfida è risultata divertente.

    2. Direi anche che la sfida è ottimamente riuscita. Mi sono trovata spesso anche io nella difficoltà di dover tagliuzzare parole qua e là e di solito sacrifico gli avverbi che sono il mio grande difetto.

  2. Ciò che emerge dal racconto è un certo senso di fretta: gli eventi si susseguono rapidamente, senza sosta e senza il giusto approfondimento, impedendo al lettore di “affezionarsi” ai personaggi e di capire appieno l’evoluzione della storia.
    Probabilmente, se fosse stato scisso in due parti sarebbe stato meglio, perché avresti potuto gestire il tutto in maniera più calma e oculata.
    So che non ti piacciono i racconti più lunghi, ma, secondo me, dovresti buttarti. Almeno provaci. Non è necessario scrivere un romanzo, anche due o tre episodi sono più che sufficienti. Tanto siamo tutti qui per imparare, nessuno di noi è un pilastro della comunità letteraria internazionale. 😄
    Io credo che ne saresti assolutamente in grado, perché i tuoi scritti lo dimostrano. 😉

    1. Non so cosa tu intenda per senso di fretta. Immagino sia riferito al susseguirsi degli eventi. Ma è pur sempre una sorta di psico-thriller (o almeno quella era la mia intenzione), non il racconto delle vacanze con la nonna (con tutto il rispetto per il senso di pace che può trasmettere un racconto simile). Quindi, in un certo senso, l’incalzare degli eventi, in 1.500 caratteri, è quasi un obbligo. Ma lo sarebbe stato anche con 5.000, secondo me. Sul fatto che, con più episodi, chi legge si possa affezionare ai personaggi concordo. Ma è proprio tipico delle serie…che devono lasciare un vuoto quando finiscono. Cosa che il racconto breve non lascia. Ma ci proverò. Grazie anche a te del contributo.

    1. Mi sono reso conto del finale un po’ stringato, ma mi sono trovato a corto di caratteri. Ho evitato di sintetizzare le parti precedenti proprio per provare a preservare l’atmosfera da psico-thriller. Ne ha pagato, probabilmente, il finale. Potevo forse dividere in due parti il racconto, ma la scelta è andata sul singolo. Grazie del contributo.