E guagliune e miez’a via

Sono seduto su una cassetta della frutta vuota, le gambe larghe e le mani sulle ginocchia. Attorno, sacchetti di spazzatura come pali di porta. Chi sbaglia, paga, e a mamm fa ‘a puttan’ . Mi asciugo il sudore con il lembo della canotta, le ascelle fradicie. Il cielo sopra Vico Massa è già arancio. Il sole scivola dietro i palazzi scrostati. Ancora mezz’ora di luce, poi basta calci al pallone. Sento la tristezza montare nello stomaco, densa, come un pugno di merda incartato. Giocare non mi sembra più così divertente.

Ho tredici anni e occhi vispi. Ma la strada mi ha già insegnato quando abbassare lo sguardo, e quando invece reggerlo, anche se le gambe tremano e sento il piscio risalire.

Salgo le scale del palazzo a piedi nudi. Il marmo è freddo. Il cuore mi batte in gola, ma non è per la fatica. Già da sotto sento le bestemmie di papà. Un’altra giornata di silenzio che finirà in grida. Un’altra bottiglia sul tavolo. Un altro schiaffo da incassare.

Se fingo di niente, forse me la cavo. Ma poi mi chiedo: che ho fatto stavolta? E mi sforzo di trovare una colpa. Se non c’è, la invento.

La porta è socchiusa. Un invito. Entro piano. Davanti a me due scelte: il cesso o la cucina? Polpette con schiaffi o fame silenziosa? Rischio. Entro in cucina. Mamma è seduta al tavolo, con l’espressione spenta inchiodata al pavimento. Papà in piedi. Camicia sbottonata, canottiera gialla di sudore.

«Addò cazzo si stat?»

Abbasso lo sguardo. «A jucà.»

Uno schiaffo. La guancia che brucia.

«T’aggio dit’ mille vote ca a chest’ora t’aggia truvà ccà, strunz’ ‘e merd’!»

Il sangue mi pulsa alle tempie. Incasso. Meglio così. Sempre meglio incassare.

«Mangia.» Mamma mi spinge un piatto di pasta scondita. Non mi guarda.

Afferro la forchetta. Papà mi fissa. Tengo gli occhi sul piatto. La pasta è fredda, sa di colla. Ma almeno riempie.

Di notte sogno Maradona. Palleggi sotto il cielo azzurro di Napoli. Il San Paolo che esplode. Juve merda tra le gradinate. Poi il sogno si spezza. Il caldo soffoca. Lo stomaco mezzo vuoto stringe. Mi tappo le orecchie per non sentire papà ansimare e mamma gemere.

E mi vergogno. Perché mi si è drizzato il cazzo.

La mattina la casa è vuota. Apro le imposte. Il sole mi sbatte in faccia. Chiudo gli occhi e per un attimo immagino che sia la carezza di mia madre. Quando ancora si ricordava di esserlo. Sul davanzale, un geranio secco. Mai visto un fiore lì sopra.

Mi torna in mente l’ibisco, il fiore delle Fiji. So dov’è la Patagonia, il lago Vittoria, i Monti Urali. Ma so che Vico Massa e le Fiji sono galassie diverse. E io non ci arriverò mai.

A settembre mi aspetta la salumeria di Don Mario. Una vita a puzzare di salame e pecorino. Così ha deciso mamma. Non mi piace, ma si mangia.

Quando mamma è al servizio, devo passarci per forza. Don Mario non prende soldi. Ma non è solo generosità. Quando la moglie non c’è, e si chiude la porta dietro di me, spariscono anche le formalità. È allora che il panino diventa più ricco. E io divento meno figlio, più oggetto.

Don Mario è sullo scaletto. Sistema le passate. Mi guarda. La lingua sulle labbra. Sorrido appena. Mi faccio avanti.

«C’aggia fa, Don Mario… vi do una mano?»

Scende, si avvicina. La mano sulla testa. Lenta. So già tutto. So che se il panino avrà il pecorino, ci sarà un prezzo. Mi lascio toccare. Non mi irrigidisco. A volte anticipo. Involontariamente. Gli basta quello.

Poi mi infila i soldi in tasca. Dieci, venti euro. Il panino lo prendo con calma. So che è mio diritto.

Per un’ora non sono un poveraccio. Vado alla sala giochi. Mangio. Offro una Coca-Cola. Se chiedono dei soldi, alzo le spalle. «Li ho trovati.»

A dieci anni la prima volta. Non capivo. Ma il coltello sulla fetta di prosciutto non era l’unica cosa che affettava. Il fiato caldo sulla nuca. La mano sulla vita. Il silenzio.

«Bravo, Ciro.» Non era un complimento. Era un segreto.

Ma tornavo. Sempre. Per fame. Non di cibo. Di qualcosa che placasse il vuoto.

Mastico il panino con soddisfazione. Ma a casa, il gusto si fa nausea. Mi infilo nel letto. La bocca sa di salame e vergogna.

Chiudo gli occhi. Ripenso al tiro che ha sfiorato il palo. Forse, se avessi segnato, tutto sarebbe diverso.

Forse. Ma la partita ricomincia sempre da zero.

Domani, un altro panino. Un altro giro. Un’altra bugia.

Ma non è mai stato il panino. È un altro tipo di fame. Quella che si placa solo col silenzio. Col dolore. E io, in fondo, lo so.

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