Emilio

Serie: Per chi suonan le campane?


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: .

Il paese non era animato in maniera diversa da tutti gli altri giorni. Il clangore dei ferri del fabbro vinceva su ogni altro rumore di bottega; a ciascun colpo battuto sul metallo ancora caldo, Don Gaetano dava l’impressione di muovere un passo, quasi stesse marciando. Avanzava a capo chino verso la piazza, evidentemente assorto in allarmanti meditazioni. Accaldato dal sole e dalle preoccupazioni, si infilava le dita nel colletto ecclesiastico, tentando di allentarne la stretta. Arrestata l’asina con un garbato tiro delle redini, Riccardo ne richiamò su di sé lo sguardo, rivolgendogli la parola.

– Don Gaetano, ma si può sapere di chi è la triste dipartita?

Questa domanda toccò di certo nel vivo le apprensioni del parroco, dato che rispose tutto impermalito.

– Di chi è la dipartita? Della testa di quel suonato di Emilio, ecco di chi è!

Emilio era il campanaro del paese, un ometto divenuto tutto braccia a forza di tirare corde. A tenere presente il suo compito, non avrebbe dovuto poi essere tanto strano sentirlo dire “suonato”; tuttavia, se il prete lo aveva bollato a quel modo, non era stato per le sue mansioni. Alla richiesta di spiegazioni di Riccardo, il sacerdote si fece a ricostruire quanto successo la notte prima.

Di sicuro il ragazzo ricordava come, nel pieno accanimento del temporale, il boato di un tuono avesse fatto tremare i vetri di ogni casa. Il fulmine a cui il rimbombo aveva fatto seguito era caduto a breve distanza dall’abitato. Uscito per una bevuta alla taverna, Emilio si stava affrettando a rientrare, quando i goccioloni della pioggia avevano iniziato a picchiargli le spalle. Mentre correva già zuppo, parandosi inutilmente la testa con le mani, il fulmine aveva toccato terra a pochi metri da lui. Accecato dall’improvviso baleno, aveva tentato istintivamente di coprirsi gli occhi, finendo tuttavia col cadere all’indietro frastornato. A prestargli soccorso era stata una guardia che, trovatolo tramortito a quattro di spade, aveva ben pensato di aggiungere al colpo del fulmine una serie di schiaffi per farlo rinvenire. Quando poi Emilio aveva dato segni di vita, lo aveva aiutato a sollevarsi prendendolo per il gomito e, continuando a sorreggerlo, lo aveva accompagnato fino a casa. L’intervento dell’ufficiale si era interrotto sul portone, dove per l’appunto aveva lasciato il cittadino, ormai in grado di reggersi in piedi da solo. Vero è che quell’accortezza si era tutta risolta in un aiuto pratico, aiuto da cui era stata esclusa ogni sorta di domanda con cui si sarebbe potuto accertare l’effettivo stato di salute del malcapitato.

Avendo scelto per sé una vita da scapolo, una volta rincasato, Emilio non aveva avuto nessuno a cui affidarsi. Pertanto, era stato solo il mattino seguente che aveva richiamato su di sé le attenzioni dei compaesani.

Poco prima delle nove, il fornaio lo aveva visto zompettare verso la chiesa. Nel suo comportamento aveva colto subito qualcosa di insolito: i balzi con cui procedeva erano quanto di più lontano dalle sue maniere discrete. Si portava avanti saltellando, guardandosi attorno con circospezione e ridacchiando, come un ragazzaccio che non volesse essere sorpreso nel bel mezzo di una monelleria. Non erano trascorsi neppure cinque minuti, quando le campane avevano iniziato a suonare a festa.

Raggiunto dai rintocchi in bagno, Don Gaetano, col mento ancora insaponato, era stato sul punto di affettarsi una guancia col rasoio. Si era ripulito alla buona e, senza badare alla barba che gli ricopriva una sola metà del viso, si era precipitato verso la basilica. Aveva trovato Emilio nella torre campanaria: come fosse in estasi, se ne stava con la bocca dischiusa in un sorriso ebete, gli occhi fissi all’insù, sulle campane. Quanto più in basso tirava le funi, tanto più queste scorrevano in alto, sollevandolo di alcuni palmi da terra. Notato l’arrivo del parroco, il campanaro si era rabbugliato in volto, assumendo un’espressione da cui trapelava un misto di timore e contrarietà. Tra le due, era parsa prevalere la paura del rimprovero o della punizione, motivo per cui, pur di evitarli, si era risolto alla fuga.

Il fatto si era ripetuto altre tre o quattro volte, con l’unica variante della sequenza dei rintocchi che dalla festa erano passati ad annunciare il lutto. All’ennesima ritirata, era caduto infine dritto tra le braccia di un gruppetto di guardie, schierate a bloccargli la strada. Difatti Don Gaetano, sicuro di non poter competere con la forza di Emilio, si era rivolto agli uomini della pubblica sicurezza perché fossero loro a catturarlo.

Fuor di dubbio, il prigioniero aveva la mente più che annebbiata: oltre ad aver completamente perso l’uso della parola, continuava a tenere le mani serrate a pugno e a muoverle in gesti bruschi verso il basso, come se le avesse strette attorno ad una corda. Dopo tanto interrogarsi su cosa gli fosse capitato, la guardia che gli aveva dato assistenza, aveva presentato la sua versione dei fatti. Tuttavia, aprendosi sul rinvenimento del campanaro, questa non dava alcuna spiegazione sulla sua perdita di sensi, per cui si poterono solamente avanzare delle ipotesi. Tra le varie supposizioni, saltò fuori anche quella corretta che chiamava direttamente in causa il fulmine. Ad ogni modo, era evidente che ad Emilio fosse andato in corto circuito il cervello.

In quello stesso pomeriggio lo si stava facendo visitare da una sfilza di medici che più che voler curare il paziente, sembravano voler competere tra loro per la diagnosi più originale. Don Gaetano in persona li aveva sentiti fino ad allora pescare paroloni talmente altisonanti da credere li inventassero di sana pianta sul momento.

In tutti i casi, furono proferiti a vuoto: nelle settimane successive, in Emilio non si poté apprezzare nessun miglioramento. Il suo stato di demenza continuava a manifestarsi specialmente in una smania a voler suonare le campane. In principio, la cosa gli venne categoricamente vietata, almeno finché non ci si rese conto di quanto l’interdizione potesse renderlo irritabile. A quel punto, pur assecondandone la fissazione, si tentò di inquadrarla in una disciplina ben scandita. Sotto la supervisione del parroco, Emilio fu addetto a suonare un segnale orario ogni trenta minuti; quanti più erano i colpi da battere, tanto più il campanaro poteva dirsi felice, rimanendo al contrario piuttosto insoddisfatto dal rintocco isolato delle tredici o dell’una. Data la frequenza e la precisione con cui doveva attendere al suo compito, non volle nemmeno far ritorno a casa, ragione per cui gli si sistemò un giaciglio nella torre campanaria.

Il borgo si fregiò così di un proprio Quasimodo: dritto come un fuso e completamente demente.

Serie: Per chi suonan le campane?


Avete messo Mi Piace4 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. Concordo con Francesco quando dice che sai padroneggiare veramente bene la scrittura. Si tratta di una cosa cui dobbiamo imparare a dare la massima importanza. La tua storia, oltre a essere molto curiosa, è scritta in un italiano che fa bene a chi lo legge. Voglio anche sottolineare la tua vena comico/ironica, per dire che il tuo racconto starebbe bene in quei libroni per bimbi e ragazzi fatti delle favole di una volta che avevano una morale. Bravissima.

  2. Complimenti per lo stile fluido e senza incertezze. Una storia ben costruita, non è semplice saper padroneggiare la scrittura.

  3. Una storiella simpatica, che pare vera. Una situazione tragicomica ben descritta, che suscita sorrisi. Povero don Gaetano e povero Emilio fulminato; immaginarli, pero`, e` stato divertente.

  4. Un racconto veramente originale, che strappa non pochi sorrisi durante la lettura.
    Bello il tuo modo di scrivere, fluido e ricercato allo stesso tempo, senza mai risultare pedante o presuntuoso.
    Molto brava!

    1. Grazie mille 🙂 In questo caso in effetti il mio non voleva essere un racconto particolarmente riflessivo. Piuttosto la mia attenzione è ricaduta sulla forma (a cui riservo sempre una grande importanza) e sulla costruzione di quadretti pittoreschi. Grazie ancora per aver dedicato un po’ del tuo tempo per leggermi.