Evanescenze

Quella sera posai la tazzina sul bancone. Con in bocca il gusto del caffè salutai Mario che insellò soddisfatto lo straccetto sulla spalla. Ero il suo ultimo cliente; poteva chiudere il bar e andarsene a casa dalla moglie adorata. Per me era diverso. Fresco di divorzio, avevo da poco riacquisito quella che i singles chiamano libertà. Il lavoro accademico mi aveva a poco a poco irrimediabilmente allontanato dalla famiglia. Seminari, conferenze, lezioni magistrali. A Londra, Parigi, Los Angeles. La fisica era sempre stato il mio primo amore. “L’unico.” chiosò gelida mia moglie, con Betti in braccio, mentre sbatteva la porta. Questa volta per sempre. Perché la fisica? Semplice: odio le sfumature. Una cosa o è o non è. Quella sera, dicevo, faceva freddo; una folata gelida s’insinuò da sotto nella mia schiena fin dentro le ossa. Mi rannicchiai nel Barbour tirando verso l’auto. Mentre il motore scaldava, notai che all’esterno si era condensata una leggera nebbia. E’ un‘altra notte buia, ruminai, e anche tempestosa. Già, una tempesta tutta interiore. Pestai sui pensieri e sull’acceleratore dirigendomi verso la Provinciale. Dovevo tornare al residence a farmi qualche ora di sonno. Due giorni dopo sarei andato a Madrid per un convegno sulla fisica quantistica, la forma fisica era importante. Accesi una Davidoff che spensi quasi subito a causa dell’improvvisa mutata visibilità esterna. La nebbiolina si era tramutata in un vapore denso che lasciava intravedere a tratti solo il margine della strada.

Prudenza!, la Provinciale è una strada emersa dagli acquitrini, una mossa sbagliata e addio macchina, se va bene. Basta andar a passo d’uomo dissi ad alta voce quando d’improvviso la nebbia si diradò mostrando due figure sul ciglio della strada. Ma che diav?!.. qualsiasi cosa fosse l’avevo già sorpassata. Frenai, il tempo di realizzare, poi azzardai una repentina retromarcia. Le due figure si fecero più nitide. Erano una donna e una bambina, sole. Si tenevano per mano e fissavano immobili qualcosa nella direzione opposta alla mia. “Signora va tutto bene?” dissi abbassando il finestrino. Nessuna riposta, solo il gelo della notte che irrompeva nell‘abitacolo. “Ehilà voi!” la donna si voltò lasciando trasparire una gran preoccupazione poi una voce lontana disse  “Abbiamo fuso l’auto poco prima di casa, vede? Abitiamo lassù.” La casa indicata non era distante, così mi offrii di accompagnarle. Dissi che ero un professore universitario, che si potevano fidare. La donna si chinò verso la bambina che era rimasta tutto il tempo col capo chino. Si scambiarono poche parole, poi mi fissarono diffidenti. “Montate pure”, aggiunsi comprendendo, comunque, la titubanza. Allora le disse ancora qualcosa che non compresi, forse per rassicurarla, quindi mossero verso di me. La donna era bella, sulla trentina, filiforme, la pelle diafana, solo lo sguardo sembrava aver perduto ogni luce. La piccola, per quel poco che si intravedeva tra i riccioli neri, sembrava una bambola di porcellana. La madre salì davanti mentre la bambina si collocò dietro e da quel momento non smise mai di fissarmi dallo specchietto retrovisore. Quegli occhi scuri, penetranti, mi procuravano uno strano disagio, ricordo che non avevano niente che rimandasse all’allegria dell’infanzia. Il viaggio per un po‘ procedette in silenzio. Poi più mosso dall’imbarazzo, con un sorriso scemo, dissi alla bambina “Sei contenta, tra poco potrai riabbracciare le tue bambole?”. Ma lei coerente con la durezza del suo sguardo sentenziò “Mamma, quest’uomo non ci aiuterà”. Mi raggelai, i bambini mi hanno sempre messo in crisi – altro che angeli!, e per il resto del tragitto non aprii più bocca. Presi la strada per la collina e finalmente arrivammo alla casa. Stavo per congedarmi quando la donna inaspettatamente mi invitò a prendere un caffè, forse per sdebitarsi del disturbo. In quella casa sembrava che il tempo non fosse mai passato, arredata com’era in stile anni ’50; anche la tazzina del caffè mi ricordò quella che mia nonna usava per le grandi occasioni. Rimasi in cucina da solo con la madre, la bambina era scomparsa, di sicuro si era rifugiata fra le sue bambole. Mi guardai un po‘ intorno, cercai di togliermi il sorriso impacciato dalla faccia e bevvi il caffè quasi tutto d’un fiato. In realtà non desideravo altro che congedarmi il prima possibile da quella donna. E da quella casa così fintamente accogliente. Una volta uscito, tirai un sospiro di sollievo. Sembrava là dentro che avessi trascorso un secolo. Fortunatamente la nebbia si era dileguata. Tornato al residence, sprofondai in un sonno pesante, senza sogni.

Due giorni dopo partii per Madrid, dove tenni la migliore lezione della mia carriera.

Qualche tempo dopo, avevo quasi dimenticato quella vicenda,  Mario mi comunicò che finalmente erano riusciti a vendere il vecchio casale in cima alla collina. Erano almeno quarant’anni che nessuno lo comprava per via di quella brutta storia. Impiegai qualche secondo prima di realizzare poi, ahimè, chiesi spiegazioni.

Nel ’59 quella casa era abitata dalla famiglia Pejcic, padre, madre e figlia di 8 anni – mi raccontò Mario. Il marito era misteriosamente scomparso dopo una battuta di caccia. In realtà si diceva che fosse fuggito per grossi debiti di gioco. Famiglia sfortunata: la donna e la bambina furono ritrovate morte massacrate vicino casa. Dissero poi gli inquirenti che quel delitto fu eseguito da un malavitoso, uno dei creditori dell’uomo.

Uscii dal bar in apnea cercando disperatamente la macchina. Ripercorsi a tutta velocità la strada fatta quella dannata sera ripetendo a me stesso di stare calmo, che sicuramente avrei trovato una spiegazione logica, che era tutto un fottuto incubo. Doveva esserlo! Imboccai la Provinciale, tirai su per la collina e mi ritrovai nuovamente davanti alla stessa casa. Ma la visione stavolta mi paralizzò. Era visibilmente disabitata da anni. Le finestre con le imposte coperte da muschi e licheni, le mura coi mattoni a vista, il tetto franato. Mosso da una rabbia improvvisa calciai la vecchia porta che franò rosa dalle termiti. Dentro tutto era marcio, corroso dall’umidità, a pezzi.

Andai in pezzi anch’io quando vidi sul tavolo la tazzina da cui avevo bevuto, nel punto esatto in cui l’avevo lasciata, interamente coperta di ragnatele.

Avete messo Mi Piace3 apprezzamentiPubblicato in Horror

Discussioni

  1. Mi hai ricordato una canzone; il chimico, di Fabrizio de André. Un uomo che odia le sfumature e sceglie una professione dove vivere al riparo del “ogni cosa è, o non è” che si ritrova alle prese con il paranormale, da sempre uno dei territori più sfumati e meno certi, dove nulla è ciò che sembra, e quello che davvero è stato probabilmente non si mostrerà mai. Mi è piaciuto molto. Scritto molto bene.

    1. Grazie Irene, non ci avevo pensato. In realtà, quando l’ho scritto non avevo grande frequentazione con Faber, purtroppo.
      Per fortuna ho recuperato.
      Riflessione interessante, grazie di nuovo!

  2. Questo racconto è coinvolgente e ben costruito, con un’atmosfera gradualmente sempre più inquietante che culmina in un finale efficace e spiazzante. Il tono narrativo è credibile, lo stile fluido, e l’uso del punto di vista in prima persona aiuta a entrare nella psicologia del protagonista. I dettagli (la nebbia, la bambina silenziosa, la casa anni ’50) contribuiscono a costruire un’atmosfera sospesa, tra il reale e l’onirico. L’unica cosa che mi sentirei di suggerirti è di rivedere la punteggiatura che a volte risulta un pochino incerta.

    1. Grazie Cristiana.
      Assolutamente d’accordo, ma so anche perché è incerta o così sembra. Questo è il primo racconto che ho scritto, oramai 25 anni fa. Come l’ho ritrovato da un vecchio file così l’ho riletto rapidamente e pubblicato. Necessitava, forse, di una più attenta revisione.
      E il tempo non è galantuomo.
      Grazie dei preziosi suggerimenti.