Famiglia unita

Serie: Tre anni in Nigeria


«Sveglia!» urlo entrando nella camera delle mie sorelle. Tiro fuori una trombetta di plastica ed inizio a soffiare dentro. Esce fuori un rumore terribile.

Chiara mi lancia il cuscino addosso e si gira dall’altra parte mentre Cristina alza le mani al cielo e strangola l’aria.

Ora che ho compiuto il mio dovere di fratello minore, vado via felice e contento.

Le mie sorelle sono atterrate ieri sera e staranno qui per venti giorni. Saranno venti giorni molto lunghi per loro! Papà ha organizzato alcune gite fuori e dentro Abuja. La stagione secca è pienamente iniziata. Nell’aria c’è sempre odore di bruciato e il vento porta con sé come della fuliggine.

Per Natale faremo anche una grande festa, visto che siamo tutti insieme. Sarà l’occasione per far conoscere alle mie sorelle gli Alleati. Ci riuniamo ogni settimana a casa di qualcuno, condividiamo le nostre informazioni, monitoriamo la situazione a scuola e pensiamo piani di intervento contro l’Asse del male guidato dai gemelli. Per il momento non è stata necessaria un’azione su larga scala, i gemelli temono molto Tom e il nostro club, che tanto segreto alla fine non è. Pranziamo sempre assieme a scuola, non è un segreto che siamo amici.

Quando tutti siamo pronti possiamo uscire. La prima tappa è la grande moschea cittadina, la cui cupola e i minareti svettano imponenti su tutta la città. È una delle più grandi dell’Africa. Parcheggiamo fuori, tra gli sguardi curiosi e minacciosi di alcuni uomini vestiti con tuniche colorate. Ad attenderci all’entrata c’è Gabriel, la nostra guida. Ha dei baffetti neri sopra il sorriso simpatico e i capelli cortissimi. Ci saluta alzando la mano sopra al suo corpo robusto e ci fa strada per le scale che portano alla terrazza d’ingresso. Le mattonelle gialle abbellite con delle righe rosse e marroni riflettono la luce del sole abbagliandoci. Ai lati dell’ingresso svettano enormi scritte in arabo bianche su mattonelle blu. Esce fuori l’imam e ci squadra a metà tra il disgustato e l’offeso. Gabriel si mette a parlare con lui in dialetto. Io so dire solo una parolaccia, waka. La devi dire con la faccia minacciosa e mostrando la mano con le cinque dita piegate. Vuol dire “figlio della quinta moglie”, l’equivalente del nostro “bastardo” ma per un nigeriano musulmano. L’ho appreso da Latifah, una ragazza nigeriana nella mia classe di Inglese dopo che alcuni ragazzi, amici dei gemelli, mi facevano questo gesto. In effetti io sono il quinto membro degli Alleati.

L’imam ci permette di entrare dentro solo se ci togliamo le scarpe e le donne si coprono il capo con il velo senza comunque entrare nella parte maschile. Gabriel parla ancora, allunga alcune naire, e l’imam insiste solo sulle scarpe. Dentro il pavimento è interamente ricoperto da soffici tappetti rossi. Colonnati bianchi sorreggono il primo piano, quello delle donne, che si affacciano di sotto attraverso ringhiere d’oro. È completamente diversa da una delle nostre chiese piena di dipinti e statue, ma mi lascia la stessa impressione di eleganza e anche di pace.

Dopo la moschea usciamo da Abuja e Gabriel ci ferma alla Zuma Rock, una montagna solitaria dove su un fianco sembra sia scolpito un viso.

Proseguiamo per la strada fuori Abuja, verso le cascate Gurara. Fermiamo la macchina in prossimità del fiume, in un parcheggio dove le guide attendono in un capanno o in una panchina sotto ad un grande albero. Avvicinandoci al fiume il rumore delle cascate si fa assordante. In una capanna alcuni uomini ci guardano curiosi mentre sgozzano una gallina. Risaliamo la roccia attraverso un sentiero e si apre quel panorama incredibile. L’acqua cade attraverso qualche spuntone roccioso e ribolle in fondo in un laghetto prima di riprendere il suo cammino in piccole rapide.

Gabriel guarda soddisfatto il nostro volto prima di guidarci in un piccolo villaggio di capanne. Ad accoglierci c’è una mucca che pigramente caccia i mosconi con la coda. C’è un forte odore di letame e una decina di bambini seminudi ci circonda. I più grandi sono incuriositi dalla telecamera che ha in mano mia sorella. Ad un certo punto un bambino grossomodo della mia età tira fuori un coltello e se lo mette in bocca. Uno dice qualcosa nella loro lingua e tutti si mettono a ridere. Non mi sento a mio agio ma sono tutti tranquilli. Alcuni uomini vanno alle motociclette, sono gli unici vestiti all’occidentale mentre il capo villaggio ci fa strada all’interno. Ci porta nel magazzino e tira fuori un tubero enorme. Non parla inglese, Gabriel traduce per noi. Da una capanna esce fuori una giovane donna, alta e snella, bella e avvenente, con una fascia blu sul capo e grossi orecchini d’oro. Mi dà la stessa impressione di Jessica Rabbit. Gli uomini tornano dalle motociclette e iniziano a dire qualcosa alla giovane, ma il capovillaggio li zittisce. La nostra visita sembra finita ma il capovillaggio inizia ad urlare qualcosa contro di noi. Gli abitanti ci circondano, minacciosi e Jessica Rabbit si trasforma in una venere nera. Gabriel urla qualcosa al capovillaggio e gli infila altre banconote in mano. Torniamo tutti amici, ma noi siamo ancora un po’ tesi anche quando torniamo a casa. Vorrei tuffarmi in piscina per levare quell’odore di letame dal naso, con forti sensi di colpa e consapevole finalmente di tutte le volte che i miei mi hanno detto quanto fossi fortunato, ma mamma si mette ad urlare.

Brutus e Dominique sono in ginocchio, davanti a lei, implorandola e toccandola.

Papà ci ordina di salire al piano superiore.

Un’ora dopo scendiamo, Brutus e Dominique sono stati licenziati. Mamma li ha colti mentre rubavano dalla stanza delle Meraviglie.

A cena siamo tutti pensierosi e mamma rinfaccia a papà che glielo aveva fatto notare da diverso tempo. Succede spesso, ma in genere gli occidentali chiudono un occhio finchè si tratta di poca roba e ogni tanto, ma quei due se ne stavano approfittando.

«Non voglio più nessuno in casa» dichiara alla fine mamma.

«Erano pagati più della media, non facevano praticamente niente che facevo tutto io e si sono giocati le credenziali per…cosa? Una pila ricaricabile senza caricabatterie? Ma perché rubare a noi?»

Mi è passato l’appetito, e ho ancora l’odore di letame dentro al naso. Quando il mondo reale riesce ad entrare dentro la nostra cupola, si fa sentire bene.

Ligi al nostro nuovo motto di famiglia, “mai fermarsi”, dimentichiamo questa faccenda e nei giorni successivi ci prepariamo per la festa di Natale. La sera della vigilia siamo tutti in attesa nel salone grande per l’arrivo degli ospiti. Sul lungo tavolo e in cucina sono già pronti i piatti per il buffet. Mamma e papà hanno cucinato per due giorni interi e hanno fatto tanti piatti nostrani, ma il meglio, anche come impatto visivo, è la pasta tricolore. Il verde è pesto fatto con il basilico del nostro orto, il bianco è pasta alla panna, e il rosso, manco a dirlo, sugo con i pomodori dell’orto. Tranne due camerieri per la serata, mamma non ha voluto assolutamente nessun altro. Arrivano gli invitati, io sono un po’ abituato ma Chiara e Cristina sono elettrizzate.

Ci sono solo gli addetti militari con le famiglie. Harry, suo fratello maggiore Jamie, Roman e i fratelli pakistani sono gli unici altri ragazzi presenti. Chiara si siede ad un divanetto e parla troppo allegramente con Jamie. Io e Harry ci guardiamo e non c’è bisogno di dire nulla. Porto i ragazzi di sopra in una stanza dove c’è il biliardino e un canestro. Roman si mette a giocare a basket con Assan, mentre io, Harry e Anan giochiamo a biliardino finchè non viene a chiamarci Cristina per il dolce. Mamma ha fatto tanti babà ed è un gran successo finchè Natasha, la moglie dell’addetto pakistana, non sente qualcosa di strano in bocca e non troppo discretamente chiede a mamma se c’è dell’alcol. Mamma si affretta a rassicurarla, ma poi fa una faccia spaventata e si corregge subito. Il rum-babà. La famiglia pakistana deve rinunciare al dolce. Che spreco.

Nonostante questo inconveniente, la serata è andata alla grande. Il cibo nostrano vince a mani basse, con buona pace del resto del mondo.

Restiamo soli quando siamo già a Natale, ci scambiamo gli auguri, papà mette al PC musica natalizia, Franck Sinatra, e tutti e cinque iniziamo a ripulire. Sparecchiato, mamma e papà si mettono ai lavelli mentre noi tre asciughiamo. Sembriamo una catena di montaggio messi così tutti in fila. Frank Sinatra fa del suo meglio, ma la stanchezza avanza. Eppure, in un paio d’ore abbiamo fatto tutto e così domani, cioè tra poche ore, possiamo goderci il giorno di Natale.

Quest’anno niente regali sotto l’albero, li dovevano portare le mie sorelle dall’Italia ma la valigia è rimasta ad Amsterdam.

Guardo i miei genitori che lavano i piatti muovendosi a ritmo di musica, le mie sorelle che asciugano e ripongono bicchieri e stoviglie spettegolando allegre degli invitati, in particolare di Jamie. Frank attacca con “Adeste fideles” e tutti noi ci uniamo a cantare con lui, in latino però.

Non mi importa dei regali, vorrei che ogni Natale fosse sempre così.

Il regalo più bello è la famiglia unita.

Serie: Tre anni in Nigeria


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Discussioni

  1. Le assonanze fra le nostre esperienze sono molte, sebbene abbiano avuto come teatro continenti diversi. Anche in Sud America era costume assumere una persona per occuparsi della casa ed ho avuto la stessa esperienza con il riso. Lì è abitudine mangiarlo come contorno, un pugno al giorno, non ti dico la mia sorpresa quando ho trovato la scatola vuota per fare il risotto sapendo di averla aperta solo una settimana prima. A posteriori, sono dispiaciuta perché non ho compreso che quel “rubare” ha un eccezione del tutto diversa rispetto che in Italia, un luogo dove il benessere e pressoché assicurato.
    Il Natale migliore è quello con le persone che ami e sei riuscito a tramettere alla perfezione quell’emozione.

    1. Da come hai raccontato il tuo arrivo a Caracas ho immaginato fosse molto simile l’esperienza, soprattutto quando hai parlato del semaforo rosso. Si può aprire un trattato sulla concezione diversa del termine “benessere” che abbiamo noi in Europa e nord America, figlia degli ultimi decenni in Italia tra l’altro, e della società consumistica che ha fatto perdere molti valori e il significato di molte ricorrenze, questo soprattutto nella mia generazione e in quella più recente, molto più vicina allo stile di vita americano. Quella vigilia di Natale, passata a lavare i piatti cantando e spettegolando tutti insieme, penso che resterà sempre la vigilia più bella che ho mai fatto.

  2. Adoro la parte del viaggio: sembra quasi di viverlo di persona! Mi ha fatto anche sorridere la parte appena precedente, quella riguardante gli “alleati”. Devo ammettere che per un momento pensavo stessi parlando della comunità degli adulti. Invece parlavi dei ragazzi! Mi piace un sacco questo cameratismo che si sta creando fra di loro. Bravo!

    1. Grazie Cristiana! Colpa mia, ho veramente scarsa fantasia con i nomi e chiamare Alleati sia gli adulti che i ragazzini non è stata una scelta felice, volevo accentuare di più come i ragazzi “giocassero” anche loro alla diplomazia

  3. Ciao Carlo, ho letto questo episodio come se stessi vedendo un film e mi sono venuti in mente altri film come “La mia Africa”, con Maryl Streep e Robert Redford. E mi e` tornata in mente la storia del mal d’ Africa di cui tanto si e` detto. Possibile – mi sono chiesta tante volte – e poi chissa` perche` quei luoghi incantano cosi` tanto e fanno venir voglia di tornarci al piu` presto. Che sara` mai? In fin dei conti, scopro soltanto ora, l’odore che prevaleva era quello del letame, degli spray antizanzare e delle banconote puzzolenti. E se lo dice il protagonista, quando era ancora un bambino; bisogna credergli. La sua voce e` quell’ innocenza; la bocca della verita`.😜

    1. Ciao Maria Luisa! Ho visto il film “la mia Africa”, bellissimo, però se ricordo bene è ambientato in Kenya. L’Africa è un continente enorme con popoli culture climi e ambienti diversi. Uno può innamorarsi del Marocco e avere il ” Mal d’Africa ” ma poi trovarsi male in Etiopia e di nuovo innamorarsi della Namibia, esattamente come in Europa uno può amare l’Italia trovarsi male in Polonia e bene in Danimarca (sto sparando Nazioni a caso). Quello che voglio dire è che tutto quello che traspare da questi racconti vale solo ed esclusivamente per la Nigeria e in particolare la zona di Abuja, per ora. Prendendo l’Italia, ci sono realtà diverse se prendiamo Cagliari Roma e Cesana Torinese. Per gli odori, banconote a parte e spray anti zanzare, il letame è l’odore prevalente in tutte le campagne coltivate! Sono stato in Germania, in un paesino al confine con Belgio e Olanda e l’odore era anche più forte! Eh oh, le mucche lasciano i loro pacchi regali in giro 😂. Per tornare ai film, sono sempre film e sono quasi tutti ambientati però in periodi storici ben precisi, tra la fine dell’800 e gli anni ’30, periodo del pieno colonialismo europeo…facile avere il mal d’Africa da colonizzatore, come nei libri di Wilbur Smith, ambientati egualmente in quel periodo, dove ricchi europei andavano a fare il safari e a cacciare elefanti rinoceronti e leoni. Affascinante, certo, facile innamorarsi di quell’Africa, ma la realtà di oggi penso sia parecchio diversa e complessa. Un po’come i film americani che dipingono l’Italia e in particolare Roma come se fossimo sempre perennemente durante la dolce vita anni ’50…ma anche no!