Finché tira, sono vivo

Serie: Mi chiamo Mario Corsi


Due bypass, un cuore stanco e un cazzo testardo: così Mario Corsi sfida la vecchiaia e la morte, aggrappandosi all’unica cosa che ancora gli risponde — il desiderio.

Finché tira, sono vivo

Mi chiamo Mario Corsi. Sessant’anni tondi, due bypass, qualche dente in meno e il cazzo ancora in servizio permanente effettivo.

Finché tira, sono vivo. Quando smetterà, che mi buttino nel cassonetto con le bucce di banana: non servirò più a nessuno.

Abito in un bilocale che sa di fumo e muffa, terzo piano senza ascensore, zona sud di Milano.

Le pareti color nicotina, il pavimento che geme a ogni passo, la televisione sempre accesa su qualche canale porno tedesco: seni finti, voci di plastica. Non li guardo per eccitarmi, ma per abitudine. È un gesto come fumare: inutile ma necessario.

Sul tavolo, due bottiglie vuote, un posacenere traboccante e un blister di pillole che dovrei prendere “per la circolazione”. Le ingoio solo quando non dimentico dove le ho cacciate.

Da quando ho lasciato il lavoro — dieci anni fa, officina meccanica, mani nere e bestemmie — la mia vita si è ristretta come una maglia lavata male: corta, stretta, con un odore che non va più via.

A volte mi sveglio col pensiero che potrei crepare nel sonno e nessuno se ne accorgerebbe.

Niente figli, niente moglie, nemmeno un gatto. Solo un vicino che ascolta la radio a tutto volume e una portinaia che mi guarda come fossi un tossico.

Eppure, qualcosa dentro continua a pulsare. Una scintilla sporca, testarda, che non vuole spegnersi. Non è fede, né speranza. È più semplice: voglia di carne. Di pelle viva, di fiato addosso, dell’odore di una donna che mi ricordi che il corpo, almeno lui, non è ancora morto.

Il desiderio è il mio battito cardiaco. Finché batte, io resisto.

La gente della mia età pensa alla salute, ai nipoti, al rosario sul comodino. Io penso solo a scaldare un letto. Non per amore, ma per istinto. L’amore è roba da romanzi: io leggo solo i volantini del supermercato.

Una scopata fatta bene, però, ti rimette al mondo meglio di qualunque messa.

Guardo le mani: dita storte, vene gonfie, unghie incrostate di grasso che non se ne va da trent’anni. Eppure, quando sfiorano una pelle liscia, tremano ancora.

Mi succede di notte, nei sogni. Mi sveglio sudato, col cuore che martella e penso: «Ehi, vecchio bastardo, sei ancora in pista.»

Non so perché continuo a tirare avanti. Forse per orgoglio, forse per paura.

O perché l’idea di morire senza toccare ancora una volta una donna mi sembra la sconfitta più umiliante.

Così passo le giornate tra vino, sigarette e fantasie. Ogni tanto mi affaccio alla finestra: le ragazze del bar sotto casa, i jeans che disegnano curve, le risate troppo forti.

Mi basta quello: una risata, un culo che dondola, e il sangue riparte.

Non c’è poesia in tutto questo. Io non sono un vecchio saggio: sono un vecchio arrapato, e va bene così.

Il corpo non smette di chiedere finché respira, e chi dice il contrario è già sepolto dentro.

Resto seduto ore sulla mia poltrona di plastica, a guardare la strada. Donne che passano, tacchi che battono, profumi che restano sospesi. Ogni volta sento il motore dentro che si riaccende, lento ma vivo.

E mi dico che non è ancora finita. Non per me.

Quando il vino scende e la testa si alleggerisce, mi infilo la giacca lisa e scendo in strada. Nessun piano. Solo l’urgenza di muovermi, di respirare qualcosa di nuovo.

Fuori c’è sole.

La città puzza di benzina e di pane caldo.

E io mi sento, all’improvviso, vivo.

Il supermercato è il mio inferno quotidiano: luci al neon, carrelli che cigolano, gente che cammina con lo sguardo spento.

Ci vado per comprare vino e sigarette, ma anche per ricordarmi che i corpi esistono davvero, che la carne non è solo una fantasia da televisione.

Quel giorno, però, la carne aveva un nome: Marina.

L’ho vista prima di sentirla.

Era nel reparto detersivi, la mano infilata in quella del marito: un vecchio gonfio, occhi da trota lessa. Lei, invece, sembrava appena uscita da un sogno proibito.

Tuta nera attillata, scarpe da ginnastica lucide, capelli raccolti in fretta, una ciocca ribelle sul collo.

Un corpo disegnato con la squadra: ogni curva un richiamo, ogni passo un colpo al cuore.

Mi sono fermato fingendo d’interessarmi alle offerte del giorno — due detersivi al prezzo di uno — ma lo sguardo era inchiodato su di lei.

Quando si è piegata per prendere qualcosa dallo scaffale, il tessuto le ha aderito addosso come una seconda pelle. Ho sentito il sangue scendere giù, rapido, impietoso.

Non ero più un ragazzino, e bastava ancora un culo ben fatto per farmi dimenticare la fine che mi aspettava.

Il marito brontolava di punti e promozioni, lei annuiva distratta. Poi, all’improvviso, si è leccata le labbra.

Una lingua lucida, lenta, studiata. Guardava un manichino in vetrina, forse, ma io lo so quando una donna manda un segnale. Quella non era distrazione: era un invito. E io l’ho raccolto.

Le sono passato accanto col carrello, fingendo disinteresse. Il cuore batteva come un tamburo.

Lei mi ha sfiorato il braccio, appena, ma la scossa mi è arrivata giù dritta al basso ventre.

L’odore del suo shampoo — dolce, fruttato, giovane — mi ha annebbiato la testa. Ho pensato: se avessi vent’anni di meno, la seguirei fino a casa.

Ma in quel momento me ne fregavo del tempo.

Mi sono fermato al banco della carne. Le voci, le luci, tutto si è fatto ovattato.

La vedevo muoversi tra le corsie, il corpo che oscillava piano, il marito dietro, impacciato, con una confezione di biscotti.

Si è voltata una sola volta, gli occhi dentro i miei. Un attimo. Ma bastava. Dentro quello sguardo c’erano la noia, la fame, la curiosità.

«Serve qualcosa, signore?» ha chiesto la ragazza del banco.

«No,» ho detto, «ho già trovato quello che cercavo.»

Marina è sparita dietro lo scaffale dei cereali, e io sono rimasto lì, col carrello vuoto e un sorriso idiota stampato in faccia.

Sessant’anni, cuore instabile, e ancora schiavo di una lingua passata sulle labbra.

Ma il corpo aveva deciso per me.

Sono uscito con due bottiglie di vino e una sensazione nuova: qualcosa dentro s’era rimesso in moto.

Camminando verso casa, guardavo la mia ombra allungarsi sull’asfalto e pensavo che forse non ero ancora da rottamare. Cristo, non ancora.

A casa, il cuore batteva ancora come dopo una corsa. Non correvo da vent’anni, ma quel giorno il corpo aveva deciso di fare di testa sua. Avevo lo sguardo di uno che ha intravisto un miracolo dietro una fila di detersivi.

Mi sono seduto, ho acceso una sigaretta e ho cercato di capire che diavolo mi stesse succedendo. Non era innamoramento, no. Alla mia età non ci si innamora più: ci si incendia e basta. Eppure, qualcosa in quella donna aveva riattivato un interruttore arrugginito. Un gesto, una lingua, e avevo riscoperto il sapore dell’esistenza.

Mi sono versato un bicchiere, ho bevuto lento, ho sorriso.

«Cristo, Mario,» mi sono detto, «sei ancora vivo.»

L’ho ripetuto a voce alta, per crederci.

Ho spento la televisione: non mi serviva più la finzione. Avevo nella testa una scena vera — lei che cammina tra le corsie, il ritmo dei fianchi, la luce fredda sulle labbra lucide.

Mi sono ritrovato con la mano sulle cosce, il respiro corto. Era come avere vent’anni di nuovo, ma con la rabbia di chi sa che ogni erezione potrebbe essere l’ultima.

Quando mi sono alzato, la stanza girava piano. Ho aperto la finestra: fuori, la notte sapeva di pioggia e benzina.

Mi sono guardato nel riflesso del vetro: rughe, occhiaie, pelle spenta. Ma negli occhi c’era un lampo. Non giovinezza: sfida. Quella che ti fa dire «vediamo se ne sono ancora capace».

Mi sono promesso che l’avrei rivista. Non sapevo come, ma l’avrei fatto. Una donna così non appare per caso.

Il giorno dopo, ho tirato fuori dal fondo dell’armadio una vecchia tuta che puzzava di olio e ferro. L’ho annusata, ho sorriso. Forse era il momento di rimettere in moto il motore.

Ho infilato le scarpe. Fuori, il sole sorgeva sopra i tetti anneriti di Milano.

E mentre chiudevo la porta alle spalle, mi sono detto piano: «Non è ancora finita.»

Serie: Mi chiamo Mario Corsi


Avete messo Mi Piace2 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. È un racconto da uomini e per questo mi affascina: non c’è nulla di diverso tra voi (loro, perché tu ancora non ci sei arrivato) e noi. Un profilo, una mano, un profumo o un odore possono essere quanto basta per sentire che non sei costretta a vivere solo di cervello, qualcosa la carne conta ancora.
    Come puoi capire, mi è piaciuto e spero che tu vada avanti così.

  2. Ciao Rocco, mi piace molto come scrivi. Quel realismo sporco e diretto funziona davvero. Comunque un pò mi trovo d’accordo con il commento di Roberto. Apparte questo, nei prossimi episodi mi aspetto cambio di rotta del personaggio, che renderebbe la storia ancora più interessante. Ciao

  3. A me è piaciuto, molto, si. L’unica cosa che ho trovato inutile e (soggettivamente) fastidiosa è scrivere per forza la parola cazzo all’inizio e poi una completa assenza di volgarità in tutto il resto. Molto no-sense, o forse un acchiappa-casalinghe studiato a tavolino?!

  4. Ciao Rocco. Comincio con il ringraziarti per avermi stimolato le energie a scrivere di nuovo qualcosa dopo una settimana di influenza devastante, roba da asteroide che picchia in verticale su un pianeta senza atmosfera.
    Inizialmente avevo pensato di farlo in privato, ma poi mi sono detto che se vogliamo evolvere come autori singolarmente e come comunità un’opinione data in pubblico può portare a più risultati (qualunque essi siano, fosse anche la definitiva conferma del pensiero di tutti sul fatto che io parli a vanvera) rispetto ad un messaggio privato, quasi ci fosse il timore di non smuovere troppo le acque.
    Il modo in cui scrivi per me non è oggetto di discussione. Personalmente lo amo molto, curato ma privo di fronzoli, selettivo, essenziale, irrefrenabile, preciso e franco da pegni da pagare.
    L’obiezione che muovo, piuttosto, sta nelle definizioni che hai usato per strutturare la tua richiesta: “nuova serie, nuovo personaggio”. E vengo dritto al punto.
    Se tecnicamente non mi posso esprimere sul fatto che sia una nuova serie (anche se un’idea parziale dal primo episodio me la posso fare), per quanto mi pare di vedere non c’è nessun nuovo personaggio.
    È sempre lo stesso, e te lo descrivo: ama da matti la fica o il cazzo o tutt’e due, gran scopatore/trice (in passato o nel presente o in potenza), che vive in un ambiente al confine tra il merdosetto e l’accettabile, fuma un sacco, beve vino più dell’acqua, in contesto metropolitano che tende ad annullarlo e potrebbe essere un po’ ovunque.
    Gli cambi il nome, gli cambi l’età, gli cambi gli indirizzi sessuali, gli cambi lo stato di salute, ma sempre quel personaggio lì è. E come conseguenza, sempre quella storia sembra.
    Per il momento (naturalmente posso solo formarmi un’idea dal primo episodio, che magari verrà smentita dal seguito) questo che hai pubblicato avrebbe potuto tranquillamente essere inserito in un’altra delle tue serie, in Uomini o in Desideri ad esempio, ed io non ci avrei notato incongruenze.
    Intendiamoci, non ci trovo niente di male e niente di sbagliato. Tra parentesi, tutto quanto detto sopra viene consapevolmente dal pulpito di uno che spacca il cazzo da mesi su un viaggio in moto, nemmeno l’avesse fatto solo lui al mondo.
    È che se all’inizio, quando ti ho conosciuto come autore, i tuoi racconti mi intrigavano tantissimo (e singolarmente ancora adesso lo fanno), ora ancor prima di aprirli mi si forma in testa già un’idea di cosa potrebbero parlare; e tante volte ci prendo. Non ci trovo più l’impronta di un autore, ci trovo un cartamodello della Burda (non so quanti anni hai e se questa immagine ti può arrivare), ci trovo un effetto Bukowski esasperato, che (è solo il mio parere, non ho la pretesa di dire che sia la verità) inizialmente ti denota ma alla fine ti imprigiona.
    Io invece, da uno con la tua penna, vorrei leggere qualcosa che sia nuovo sul serio, perché so che mi farebbe passare del tempo speso bene.
    Rileggendo quello che ho scritto, penso di avere ottemperato almeno ad una delle tue due richieste, quella di un giudizio implacabile. Sul costruttivo non lo so, ma l’intenzione era quella.

    1. in poche parole, si chiama AI. O IA, ma potrei pure sbagliarmi. Anzi, per una volta spero tanto di essere in torto. Prima di cliccare la notifica, pensavo fosse un altro capitolo della serie “Uomini”, salvo poi accorgermi del contrario.

    2. @LegGoriferito in poche parole, si chiama AI. O IA, ma potrei pure sbagliarmi. Anzi, per una volta spero tanto di essere in torto. Prima di cliccare la notifica, pensavo fosse un altro capitolo della serie “Uomini”, salvo poi accorgermi del contrario.

        1. Che c’è, esce fuori un po’ di stizza? Sarà che magari ci ho azzeccato? 🤣. Non riesco ancora a fare a meno di pensare alle tue prime storie, a come fossero, e… a come dopo pochissimo tempo hanno subito un cambiamento a dir poco radicale. Di solito queste “evoluzioni” impiegano più tempo, con te sembra siano durate uno schiocco di dita. Però ripeto, magari mi sbaglio eccome, tra l’altro un esclamazione come “pensa che se non ti sbaglia neanche stavolta” non la capisco, vuoi il retaggio culturale o la regione differente in cui siamo cresciuti, ma qui da me nessuno si esprime così. Se te ne esci dal vivo con una frase così, ti riderebbero in faccia per il semplice fatto che non vuole dire proprio niente. Almeno, qui.

        2. Comunque a Milano qualcosa l’avevo imparata anche io, perciò ten dür e ciapa n cül (si scriveva così?) 😘.

  5. Ciao Rocco, provo a darti ciò che chiedi e cioè un parere costruttivo (mai mi permetterei un giudizio implacabile). La scrittura è ineccepibile, è la tua: bella, graffiante, precisa e sicura; gli argomenti sono quelli a te congeniali e girano attorno alla potenza del sesso, questa forza animalesca che, in tutte le sue sfumature, fa andare avanti l’umanità. Esterni un cinismo metropolitano che però, in quelle che sembrano certezze, tradisce quasi una nostalgia di ciò che non si è riuscito ad avere nel corso della vita e quella assenza di moglie, figli e gatto si trasforma in rassegnazione rabbiosa, quasi a voler ribadire che non c’è errore, che quello che conta per esistere è il cazzo che tira. Eppure, proprio i concetti carnali di Mario, ribaditi più volte in questo primo capitolo, mi fanno pensare che mi stupirai e che la cruda esposizione del suo cinico presente subirà una trasformazione. In fondo qualcuno dice che gli odierni sessanta non sono che i trenta di un tempo 😉 vedremo! E, comunque vada, leggerti è sempre un bel piacere!