Forse va bene così

Serie: FULL


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Niente di nuovo

Mi sveglio c’è luce, ma non sembra mattina. Il sole filtra dalla finestra e illumina le pieghe del letto, come ogni giorno. Giulia dorme ancora accanto a me, il respiro regolare, la mano posata sul cuscino.

Non riesco da ieri a togliermi una strana sensazione di dosso, come se qualcosa fosse fuori posto. Mi siedo sul bordo del letto e guardo fuori. La porta dell’appartamento accanto è chiusa, il nastro giallo della polizia ondeggia piano nella brezza.

Provo a ripensare a ieri, ma è tutto confuso. So solo che sono andato a letto prima del solito, sentivo un peso sul petto che non mi lasciava respirare. Forse era solo una normale reazione a quello che avevo visto; forse il quadro della vicina stesa sul pavimento è stato solo frutto della mia immaginazione. È quello che abbiamo detto alla polizia.

Mi alzo e vado in cucina. Metto su il caffè e aspetto che Giulia si svegli. Fuori è tutto tranquillo, fermo. Il caffè gorgoglia nella caffettiera, riempiendo la stanza con il suo odore forte. Provo a concentrarmi su questo, qualcosa di normale.

Giulia entra nella stanza con i capelli arruffati, gli occhi gonfi. «Buongiorno» dico, ma la mia voce suona strana, come se venisse da un’altra stanza.

Lei annuisce e si siede al tavolo. Verso il caffè in due tazze e gliene passo una. Non dice niente, guarda fuori dalla finestra, la stessa finestra che dà sulla porta accanto. «Li hanno portati via» mormora.

«Chi?»

«Quelli dell’appartamento accanto.» Si stringe nelle spalle, come se fosse un’informazione che non ci riguarda. Forse non ci riguarda davvero. Non li conoscevamo bene. Qualche saluto frettoloso, qualche parola scambiata tra un’uscita e l’altra.

Bevo un sorso di caffè. Brucia, ma mi serve per restare sveglio, per scacciare la sensazione di essere ancora addormentato. «Tu cosa hai sentito ieri?» chiedo, anche se so già la risposta.

Lei scuote la testa. «No, niente di particolare. La solita lite tra i due.»

Il solito rumore. Come suona strano adesso, annuisco. Era quello che avevamo detto alla polizia, no? Niente di particolare, un altro giorno come tanti.

«Devo andare al lavoro» dico. Mi sembra una cosa assurda da dire ma uscire e fare finta che tutto vada bene sembra la cosa più giusta da fare. Forse lo è davvero.

Giulia non risponde, si limita a prendere la tazza e a sorseggiare il caffè in silenzio. Non mi guarda negli occhi. Nonostante il lungo sonno siamo semplicemente stanchi. Troppo stanchi.

Mi vesto in fretta. La routine mi conforta: giacca, cravatta, valigetta. Tutto al suo posto. Prima di uscire, do un’ultima occhiata alla porta accanto. Il nastro giallo si è staccato da un lato e svolazza nervoso.

Quando arrivo in ufficio, mi siedo alla scrivania, accendo il computer. I colleghi parlano, ridono, si lamentano del traffico, della pioggia che è prevista per domani. Io annuisco con la testa, e concedo qualche monosillabo. Mi sembra che il loro vociare sia troppo forte, troppo invadente, troppo.

Le ore passano lente, ogni suono mi sembra più forte del solito. Il ticchettio delle dita sulle tastiere, le risate forzate, il rumore della macchina del caffè. Cerco di non pensare a nulla, di concentrarmi sui documenti, sulle mail, su qualunque cosa. Ma ogni tanto l’immagine della porta chiusa con il nastro giallo mi torna in mente, come una macchia che non riesco a cancellare.

Quando torno a casa, Giulia sta preparando la cena. Sento l’odore della zuppa che bolle sul fuoco, un odore familiare, l’odore delle sere tranquille, la televisione accesa, routine rassicurante. Tolgo il cappotto e vado in cucina.

«Cosa c’è per cena?» chiedo, sforzandomi per sembrare normale, ma sento che la mia voce è tesa.

«Zuppa» dice lei, e non aggiunge altro.

Mi siedo a tavola e aspetto che lei mi passi il piatto. Nessuno dei due sembra voler rompere il silenzio. Mangio lentamente, sentendo il calore della zuppa che scivola giù per la gola. Giulia non mi guarda, e io non guardo lei. Non parliamo. Non sappiamo cosa dire.

Alla fine della cena, mi alzo e metto il piatto nel lavandino. Lavo i piatti con movimenti automatici, il rumore dell’acqua che scorre è l’unica cosa che riempie la stanza.

Vado a letto, Giulia è già sotto le coperte. Si è girata dall’altra parte, il respiro lento e regolare la mano sul cuscino. Mi sdraio accanto a lei, ma non riesco a chiudere gli occhi. Resto sveglio a lungo, ascoltando. Mi sembra di sentire qualcosa, forse un sussurro, o forse solo il mio respiro.

Aspetto. Solo il solito rumoroso silenzio dell’insonnia.

E forse va bene così.

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