
Ginko Biloba
Era in cerca di un tatuaggio da una vita. Ci stava pensando da anni, momento più, momento meno. Avrebbe sempre voluto farsi incidere qualcosa di indelebile sul corpo. ‘Uno scarabocchio’, come amava chiamarli un suo amico. Poi non era mai arrivata a prendere la decisione. Farsi tatuare era uno di quei passi che non prevedevano ritorni. Un atto definitivo e, scegliere il soggetto che voleva rappresentare su di sé, era diventata un’azione così difficile da portare a compimento, che i momenti per decidere si erano trasformati in anni. Non sarebbe uscita dal circolo vizioso del terrore di sbagliare, che la accompagnava da sempre, se per caso, quella volta, non fosse inciampata in quella radice esposta, che l’aveva proiettata lunga distesa a ruzzolare su un tappeto di foglie cadute. Senza nemmeno accorgersi del pericolo, si era trovata sdraiata su un tappeto dorato di foglie che emanavano un odore forte e per nulla piacevole. Il colore paglierino mitigava il disgusto che l’odore emanava, ma il corpo reagì, cercando di porre le distanze fra quell’acidità che impregnava le narici e le foglie gialle che stavano sotto. Si sollevò guardandosi intorno, con la malcelata speranza che la sua caduta fosse passata inosservata. Nulla da fare. Un uomo, con una custodia musicale in mano, le si fece incontro e le porse il braccio, certo che ne avesse bisogno.
«Fatta male?» Le chiese con un leggero tono nasale e con uno sguardo realmente preoccupato che la squadrava dalla testa ai piedi, per controllare che non ci fossero ferite da nessuna parte.
«No! No! Tutto a posto… Sono inciampata… Non so nemmeno dove…» replicò lei, cercando di celare l’imbarazzo che, se avesse potuto, l’avrebbe fatta correre via in un batter d’occhio.
«Lì, in quella radice. Con la scusa che sono fossili viventi, il Comune ha deciso di lasciarli crescere liberi, senza vincoli ambientali».
Per un attimo parve riaversi e, messa da parte la timidezza che solo lei sapeva di dover combattere, guardò in faccia l’uomo: «Ma di cosa parla? Quali fossili?».
«Ma i Ginko Biloba!».
Ecco. Ci era cascato di nuovo. Parlava di cose dando per scontato che gli altri fossero nella sua testa e riuscissero a leggere i suoi pensieri, ma il più delle volte lo guardavano straniti, esattamente come quella donna adesso. Sorrise bonario e, appoggiata la custodia sul prato giallo, sostenne il gomito della donna, aiutandola a sollevarsi da terra.
Era davvero un disastro: capelli ricci avvelenati, scarmigliati e pieni di foglie, le calze pesanti si erano smagliate e all’altezza delle ginocchia si intravedeva la sbucciatura provocata dallo strusciamento sul terreno. Nonostante gli effetti della caduta, che ne alteravano l’aspetto, quella donna però emanava una energia piacevole da percepire, per uno che, come lui, aveva fatto della ricerca dell’essenza delle cose il suo stile di vita, da un po’ di tempo a questa parte. Sì! Decisamente una bella energia. Chissà come si chiamava. Probabilmente un nome corto. Ne era certo.
«Piacere Gianluca! Janlu per gli amici» e il braccio scattò in avanti con la mano pronta a stringere quella di lei.
Lo guardò sorpresa e, senza sapere perché, rispose immediatamente al gesto, allungando la sua mano sporca di terriccio, che si chiuse intorno a quella di lui in una stretta decisa, per rispondere: «Piacere Elisa! Per gli amici Elly» mentre un sorriso simpatico le si apriva sul viso arrossato.
‘Elly’ Janlu sorrise sornione, Elly era decisamente un nome corto.
«Direi che ti spiego la storia dei fossili viventi davanti a un caffè. Che dici Elly per gli amici, posso chiamarti Elly?»
Non sarebbe accaduto nulla di devastante se lei avesse risposto no…
«Solo se io posso chiamarti Janlu. E sì il caffè lo prendo volentieri!».
No. Non aveva detto no! Pensò lui.
‘Cosa diavolo ti piglia?’ urlò nella testa l’alter ego di lei che tentava da sempre di tenere a freno la sua vitalità ‘Uno sconosciuto! Santa miseria!’.
Ma Elly non ascoltava più. Con la cartella di pelle sotto al braccio lei e con l’ingombrante custodia in una mano lui, si stavano incamminando verso il bar, in fondo al parco. Un caffè alla fine non avrebbe fatto male a nessuno. E poi c’era quella questione dei fossili viventi da chiarire…e al GinkoBar pareva che il caffè fosse delizioso.
«Sei un musicista?» Partì a bomba Elly, non appena il cameriere ebbe portato i caffè, che in realtà erano appena diventati due cioccolate calde.
«Sei un’osservatrice…» buttò lì Janlu, senza pensare che avrebbe potuto essere frainteso nelle intenzioni. Ironia? Sarcasmo? Presa per i fondelli?
Figurati se lei ci cascava. E infatti.
«Exactly!» Rispose Elly, arricciando il volto in un sorriso che esplodeva, come una cascata islandese a primavera. «Sono un’osservatrice nata. Quel che vedo lo fotografo mentalmente e lo descrivo”.
Energia allo stato puro, entusiasmo trattenuto a stento. Doveva essere una Leonessa, ma qualcosa dietro lo sguardo, lasciava intuire una complessità che non sarebbe stata semplice da decifrare. Non era solo quello che sembrava.
L’aveva intravista sul sentiero davanti al lui, che camminava con un ritmo tutto suo.
‘Se non rallenta, cadrà distesa con tutte queste foglie scivolose’ aveva pensato un momento prima che lei volasse oltre quella radice che usciva fuori dal terreno.
Un’altra avrebbe fatto un salto in alto non appena avesse toccato terra, per evitare la brutta figura, ma quella tipa, pareva non averlo nemmeno visto. Gli era venuto da sorridere vedendola là stesa, ma non per irriverenza, piuttosto perché quella donna emanava una gioia contagiosa.
«Che vuol dire che lo descrivi? Cosa descrivi?» continuò interessato.
«Scrivo. Sono una scrittrice. O almeno amo definirmi tale da un po’ di tempo a questa parte. Diciamo che vorrei farne una missione» chiosò lei.
«Una professione…» corresse lui.
«No. No. Proprio una missione. Scelgo con cura le parole. In fin dei conti sono il mio pane».
«Spiegati meglio» insistette Janlu ‘per gli amici’.
«Non prima che tu mi abbia raccontato di te e della tua chitarra… perché è una chitarra quella che si nasconde in quella custodia, vero?».
«Exactly!» Ripeté lui furbescamente.
«Un ‘copione’. Un copione musicista!» E la più sonora risata possibile, senza che la donna risultasse fuori di testa, riempì il dehor del bar.
«Sì. Sono un musicista» replicò, iniziando a sorridere contagiato.
«Cosa ci fai in questo parco a quest’ora del pomeriggio? Io stavo andando alla lezione di scrittura, ed ero in evidente ritardo. Quando però sono ruzzolata a pelle di leopardo, mi sono resa conto che non era a scrittura che dovevo andare ma… oggi è giovedì, giusto?».
La osservava, senza capire da che parte di mondo arrivasse tutta quella energia, ma era innegabilmente incuriosito.
«E dove dovevi andare di giovedì?» chiese curioso.
«Dal tatuatore. Avevo un appuntamento dal tatuatore di via degli Artisti» confessò divertita.
«No dai!!!!! Ti vuoi fare uno ‘scarabocchio’? Non ci credo».
‘Scarabocchio’ che coincidenza pazzesca. Anche lui aveva usato la stessa parola.
«Non ti piacciono i tatuaggi?» chiese sorpresa «Saresti il primo musicista che mi capita di incontrare che non li ami.»
«In effetti sono un musicista atipico. No, non amo ciò che deturpa il corpo solo per una questione prettamente legata all’immagine. Lo sai che i tatuaggi avevano un profondo significato simbolico un tempo?».
Eccolo lì. Era ripartito con la fase ‘condividiamo la conoscenza’ e si sarebbe mangiato le mani fino ai gomiti, se lei infastidita si fosse alzata e se ne fosse andata.
Ma nulla. Non c’era cascata neanche stavolta.
«Sì, lo so. Ho fatto ricerche sul significato del tatuarsi. Ho cercato cosa volesse dire, nelle culture in cui l’evoluzione personale passava attraverso la ricerca spirituale, farsi incidere la pelle con dei segni. Che tipo di simboli potessero essere congrui con il percorso che ho fatto fin qui. Che tipo di tecnica poteva fare al caso mio. In fin dei conti non sono più una bambina, la pelle si rilassa; non vorrei correre il rischio di tatuarmi, che ne so, una stella alpina e trovarmi tra un paio d’anni col disegno di un tendone da circo fra le scapole.»
Spiegò tranquillamente, senza preoccuparsi minimamente dello sproloquio che poteva rischiare di diventare di una noia mortale.
‘Anche lei argomenta parecchio’ pensò Janlu compiaciuto da quella sintonia. Forse questo le avrebbe impedito di scappare a gambe levate, qualora lui fosse ripartito per la tangente, addentrandosi in spiegazioni non richieste. Ma Gianluca era così, quando la timidezza gli strizzava lo stomaco, l’unica reazione incongrua, che mostrava, era quella di iniziare a chiacchierare a raffica.
In effetti la conversazione stava prendendo una direzione inaspettata. Nessun imbarazzo, nessuna incertezza. Tutto pareva avere una collocazione. E anche la cioccolata calda era deliziosa.
L’indice segue la linea ondulata all’interno del polso. La piccola foglia di Ginko Biloba aveva resistito al passare del tempo, rimanendo delle stesse dimensioni che avevano scelto quel giorno dal tatuatore di via degli Artisti. La stessa foglia sui loro due polsi, uno a destra, l’altra a sinistra, che, quando venivano uniti, per una calcolata simmetria, formavano un piccolo cuore. Janlu avvicina il polso a quello di Elly e per l’ultima volta bacia quel cuore.
«Buon viaggio Amore grande».
Ti piace0 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Ciao Elisa, mi sono emozionata durante la lettura del tuo racconto e commossa sul finale. Molto interessante il lessico fresco che utilizzi, sembra quasi di sentirli conversare. Curiosi i cambi di punto di vista, come un gioco fra i due interlocutori. Molto bello 🙂
Grazie Cristiana mi fa piacere che tu abbia apprezzato.
Wow, complimenti!
Grazie Fabio.