
Giochi di luce I parte
Serie: Credo.
- Episodio 1: Vita
- Episodio 2: Puzza di fiori
- Episodio 3: Colori
- Episodio 4: Giochi di luce I parte
- Episodio 5: Giochi di luce II parte
STAGIONE 1
“Non guardarmi così. Insomma è domenica, è una bella giornata ed è il tuo compleanno. Tu invece sei qui che studi per un esame che passerai ad occhi chiusi. Da quanto ci stai su? Un mese?”
“Come fai a saperlo?” chiesi guardando fuori. Aveva ragione, il cielo si rifletteva limpido sulle finestre degli edifici difronte.
“Sei sempre su quei libri…su ‘sto divano” sbuffò.
“no, del mio compleanno”
“Ho le mie fonti Benedetta. Davvero non c è altro che vorresti fare in questa splendida giornata?”
“In questa splendida giornata assolata, può darsi. Per il mio compleanno no” era essenziale per me ribadire questo concetto.
“Senti il peso dei tuoi ventun anni?”
“Non voglio festeggiare”
“È triste no?” quei grandi occhi mi scrutavano attenti e lessero qualcosa nei miei che lo fecero desistere dal andare avanti a parlarne.
“Va bene” disse alzandosi e porgendomi una mano per farmi alzare.
“Usciamo, ti porto in un posto che ti piacerà”
“Uh un appuntamento….finalmente” commentò entusiasta Marco che stava assistendo alla scena dalla cucina mentre preparava dei toast.
Fede sorrise scuotendo la testa ”sta’ zitto”.
Lo guardai.
“Dai” mimò con le labbra sfoderando un sorriso bianco perfetto.
Non era un appuntamento mi dissi.
Presi la sua mano e mi alzai. “Almeno posso cambiarmi?” mi incamminai verso la mia stanza passando prima a rubare un pezzo di toast
“Ti do un quarto d’ora al massimo, ci vediamo giù” mi fece l’occhiolino.
Era una fortuna che mi fossi fatta una doccia quella mattina. Mi lavai i denti, misi un po’ di mascara e del rossetto nude. Non mi sono mai piaciuti i trucchi pesanti. Sistemai le onde sinuose color cioccolato che ormai arrivavano a metà schiena, indossai un jeans nero con un maglioncino a collo alto color rosa antico, degli stivaletti neri e il mio cappotto bianco panna preferito con il basco in coordinato. Non è un appuntamento mi ripetei mentre mi aggiustavo le pieghe del cappotto osservandomi allo specchio.
Dodici minuti esatti dopo, io e la mia dannata puntualità, ci avviavamo verso l’uscita dell’appartamento, quando incrociando Marco che ancora mangiava in cucina, lo sentii dire:
“È decisamente un appuntamento!”
Gli sorrisi e lo salutai alzando il dito medio.
Quando scesi Federico mi stava aspettando appoggiato al portone. Anche lui si era cambiato, il blu della sua giacca risaltava quello dei suoi occhi. Al collo aveva la sua amata macchina fotografica. Il cielo era sereno ma nonostante splendesse il sole, l’aria era gelida.
“Il bianco ti dona” disse sorridendomi “ andiamo non abbiamo tempo da perdere.”
Ci avviamo verso la metro chiacchierando del più e del meno, solo quando arrivò il treno mi venne in mente di chiedergli dove stavamo andando, ma un via vai di turisti che scendeva a quella fermata ci travolse, cosi salimmo di corsa e rimanemmo in piedi appoggiati ad un palo, sfiorandoci di tanto in tanto quando la gente saliva spingendo per farsi posto. Scendemmo a Place de Clichy, notò la mia espressione spaesata. Odio non avere le cose sotto controllo. Dirigendoci verso l’altra coincidenza disse “vedrai, tranquilla”.
Ci sedemmo uno di fronte all’altro divisi da un gruppo di turisti cinesi, gli sorrisi e mi appoggiai tranquilla al sedile a guardare le fermate della linea azzurra sopra la sua testa. Chiusi gli occhi. Mi piaceva viaggiare in metro. Forse perché mi ricordava casa. Quei fischi dei freni quando il treno arriva veloce, lo sbuffo delle porte che si aprono, il chiacchiericcio della gente, il click dei tornati che si aprono al passaggio dei pendolari, il rumore delle rotelle dei trolley, il tintinnio monete che cadono nella macchinetta dei biglietti. Mi stavo rilassando ascoltando il violinista che si esibiva su quel vagone suonando Paradise dei Coldplay, quando mi sentii sfiorare la mano.
“Dobbiamo scendere”.
Il volto mi s’illuminò quando capii dove eravamo diretti.
“Non c’eri ancora stata” Disse a mo’ di giustificazione mentre salivamo le scale mobili.
“Non ho avuto tempo”
“ Sei sempre su quei libri!” Mi ammonì.
Lui passeggiava per la basilica a di Saint Denise armato della sua macchina fotografica. All‘ingresso ci eravamo separati voleva mi godessi la visita, ma mi teneva d’occhio da lontano. Mi piaceva perdermi nei particolari, ammirare dettagli che altri non notavano. L’architettura mi aveva sempre affascinata.
Mi sentivo piccola e insignificante camminando sotto quella struttura apparentemente cosi fragile. A trenta metri dalla mia testa, si ergevano lungo tutta la navata centrale volte su crociera ad ogiva sotto le quali, enormi vetrate colorate si aprivano facendo risplendere la chiesa di una luce ininterrotta. Mi sedetti su una sedia, immobile ad ammirare le vetrate illuminate sopra il coro.
“Stai trovando un po’ di pace qui?” mi sussurrò all’orecchio arrivandomi alle spalle e sedendosi vicino me.
Sorrisi, ricordandomi di una delle tante chiacchierate notturne fatte studiando e mangiando schifezze sul bancone della cucina. Parlavano di cosa ci facesse sentire in pace con il mondo e io gli dissi che mi piaceva andare in Duomo all’ora di pranzo e guardare le vetrate illuminate dai raggi del sole. Lui mi aveva preso in giro dicendo che ero proprio vecchia dentro.
“Beh non è il Duomo di Milano, ma mi accontento” gli risposi ridendo per poi fermarmi a guardare quegli occhi che mi davano sicurezza, era stato così da quando l’incrociai per la prima volta nel bagno.
“io e mio papà siamo nati lo stesso giorno”
“Benni, non devi per forza spiegarmi ” mi prese la mano per confortarmi e non me la lasciò.
Dopo una breve pausa continuai a parlare a voce bassa.
”L’ultimo compleanno che festeggiamo insieme è stato quello dei miei sette anni. Non lo ricordo, ho una foto però che avrò guardato un milione di volte. Lui compiva 30 anni, sulla torta c’erano tre candeline che formavano il numero 307. Io ero in piedi su una sedia per essere alla sua altezza, indossavo un vestitino rosa e avevo una coroncina in testa, ero imbronciata perché mi aveva messo della panna sul naso e lui rideva come un pazzo, era un bambinone” con l’indice seguivo distrattamente le linee sul palmo della sua mano mentre continuavo a parlare. Lui mi ascoltava attentamente lasciandosi toccare.
“Tutto ciò che ricordavo di lui si è perso come fumo nel vento, durante questi anni. Mi sono rimasti solo i racconti di mia mamma e di mia nonna e foto, tante per fortuna, che mi aiutano a riviverlo. Non posso ricordare la sua voce o il suo profumo, ma so che sorrideva sempre ed era fotogenico, che aveva perennemente i capelli spettinati. Che mangiava la pasta con il pane o che a ogni compleanno c’era una torta per me e non per lui. Amava il gelato alla nocciola, fare passeggiate sul lago di Como o portarmi in bicicletta al parco vicino a casa. Poi faceva sempre arrabbiare mia mamma perché occupava tutto il tavolo della cucina, per fare puzzle che puntualmente non finiva mai.
Il suo funerale invece, è l’unica cosa che ricordo come se fosse ieri. E allora, quando entro in una chiesa e sento l’odore dei fiori e dell’incenso, il rumore dei passi sul marmo, il crepitio della cera delle candele che brucia, la luce che filtra dalle vetrate colorate, tutte queste cose me lo fanno ricordare, anche se non nel momento più bello lo so, eppure per qualche istante mi sento vicina a lui” non so da dove tirassi fuori il coraggio di raccontargli questa parte di me.
“Quindi ti ringrazio per avermi portato qui” la voce rotta da lacrime che non controllavo. Lui si alzò, stringendomi forte la mano e s’inginocchiò davanti a me. Asciugò teneramente le lacrime con i pollici per poi prendermi delicatamente il viso tra le mani per costringermi a guardarlo. Mi sfiorava come fossi di cristallo, pronta a rompermi in mille pezzi sotto il suo tocco. Mi specchiavo in quel mare blu cobalto.
“Sei stata privata dell’amore più bello e incondizionato che solo un padre può dare. Sei dovuta crescere così in fretta, e questo è tremendamente ingiusto Benedetta, ma non puoi privarti di vivere la tua vita con la spensieratezza della tua età”.
Rimanemmo a fissarci per dei secondi interminabili. La me riflessa in quel mare calmo ci nuotava beata, chissà lui cosa vedeva nei miei occhi nocciola. Poi, si alzò dandomi un bacio sulla fronte e io ripresi a respirare.
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