Giogantinu doc

Betta era riuscita a trovare un piccolo spazio a poca distanza dalla grande quercia dove, seduta a gambe incrociate sulla nuda terra, non perdeva una sola nota di quella musica che riusciva a farle dimenticare il resto del mondo. Il suo primo incontro col jazz era stato molti anni prima, durante le vacanze estive in quella parte dell’isola dove Fabrizio De Andrè e Dori Ghezzi, vicino al paese di Tempio Pausania, avevano realizzato la loro bella tenuta. Erano i giorni in cui Time in Jazz faceva tappa anche lì, a L’Agnata. L’atmosfera era molto suggestiva. Quel genere di musica l’aveva travolta sin dal primo momento, con una forza penetrante che le era rimasta addosso per giorni, come una carica vitale. In particolare l’aveva colpita un assolo di Fresu, con la sua tromba, mentre suonava quasi rannicchiato. Sembrava un mistero come riuscisse a tirar fuori tutto quel fiato. Da allora aveva assistito ad altri concerti, aveva comprato dischi e scaricato molti brani da internet. Sognava di tornare sull’isola da tanto tempo, per poter ascoltare, ancora una volta, dal vivo, il suo jazzista preferito.

Susi e Gi’ non avevano mai assistito a un concerto jazz. Era la prima volta in assoluto e il loro entusiasmo per la novità di poter assistere a quella rassegna tanto importante, era esattamente pari a zero. Dopo i primi dieci minuti avevano iniziato a sbuffare e a lamentarsi. Subito dopo, mentre una sbadigliava, l’altra iniziava a mettersi le mani sulla testa per coprire le orecchie.

Due strani esemplari maschi in canottiera bianca, pantaloni neri “della domenica” e infradito di gomma, le avevano adocchiate, osservando il loro evidente disinteresse per quella performance musicale. Si erano avvicinati con il pretesto di offrire una bibita fresca in lattina. La linguetta del barattolo si era spezzata, per riuscire ad aprirla uno dei due aveva tirato fuori il suo “temperino” artigianale. Una pattadese non tanto grande. Dopo il classico interrogatorio per sapere nomi, provenienza e attività varie, i due avevano fatto una rapida indagine, non troppo velata, per scoprire se ci fossero altri maschi al seguito, nei paraggi. Subito dopo avevano proposto un programma alternativo che sembrasse più allettante.

«Sempre meglio di quello scassatimpani svitato che si è arrampicato sull’albero» aveva commentato Susi, che al jazz, al rap, al rock, al reggae, alla musica dance o a quella sinfonica, preferiva il genere neo melodico alla Gigi D’alessio. Idem per Ginetta. In certi momenti particolari di solitudine o malamore, la loro unica consolazione erano stati, non tanto i nuovi cantanti neomelodici, quanto i vecchi LP di Nino D’Angelo.

«Che melodia» aveva detto Gi’ al commesso di un centro commerciale, una volta che aveva preso in mano il vinile “Nu jeans e ‘na maglietta” del cantante napoletano.

«E che se lo tenga» le aveva risposto il ragazzo con una battuta che lei non aveva colto.

***

«Avvisiamo le altre?» aveva chiesto Susi, prima di allontanarsi dal concerto con i due perfetti sconosciuti.

«Ma no, non importa. Vedi che quella sta ascoltando il trombone e non la smuove neanche un cannone.»

«Gi’, non è un trombone è una tromba.»

«E va be’ è lo stesso.»

«E la giornalista?»

«Fa niente… anche se ci perdiamo di vista… Tanto deve fare un’ intervista.»

«Si, al trombettista.»

«Per la sua rivista» aveva concluso Ginetta, ridendo.

Poco più tardi Mary Spencer, dopo un breve mancamento, aveva riaperto gli occhi. Davanti a lei c’era un medico che aveva assistito al concerto, due volontari del servizio di pronto soccorso e lui: il maestro, il direttore artistico della rassegna musicale, il grande jazzista sardo e internazionale che, senza volerlo, aveva contribuito, in minima parte, al suo svenimento.

Lui le aveva sorriso, cercando di rassicurarla, mentre l’aiutavano a rialzarsi. Il medico aveva detto che andava tutto bene: un piccolo calo di pressione per il caldo. Le aveva consigliato di prendersi un buon caffè e di stare al fresco, a riposo.

L’intervista al maestro rimandata al giorno dopo.

Betta si era avvicinata quasi subito e l’aveva sostenuta sotto braccio, mentre cercava di capire cosa fosse successo.

Prima di avviarsi al B&B dove avrebbero alloggiato, le due donne si erano guardate intorno per ritrovare le altre due compagne di viaggio. Bisognava aspettare che il folto pubblico che aveva assistito al concerto si diradasse. Dopo quasi un’ora di ricerca, di Susi e Gi’ neppure l’ombra.

Mary Spencer, come le aveva consigliato il medico, era andata a riposarsi. Betta aveva continuato la ricerca delle due sprovvedute, con l’idea che si fossero cacciate in altri guai. La chiesetta di San Michele era chiusa. Era da escludere che fossero entrate là dentro: di certo non per pregare; magari per curiosare e stare al fresco. Quando era passata davanti alla chiesa di San Sebastiano, al centro del paese, era entrata a dare un’occhiata, senza la minima convinzione di trovarle lì dentro. E mentre varcava il portale, sentiva già nell’aria la conferma del suo dubbio. Quelle due rintronate all’odore dell’incenso, preferiscono il fumo delle canne – aveva pensato.

A un passo dalla chiesa parrocchiale c’era la chiesetta di Nostra Signora del Rosario: chiusa anche quella. Fare il giro delle sette chiese di Berchidda, incluse quelle campestri che aveva visto sulla guida, non aveva alcun senso. A occhio e croce, spostandosi con la Jeep, il tempo di un altro giro di tango – “Tango Macondo” – dal cd di Mary Spencer – già inserito nel lettore dell’autoradio – e avrebbe fatto il giro completo del circondario. Forse anche meno: il tempo di un cono gelato, scartato e mangiato. Betta, però, ci aveva rinunciato. Una sola idea le balenava per la testa. Benzina sprecata. Susi e Gi’ non avevano l’aria di chi è patita per l’architettura e l’arte sacra. La sua prima impressione era ormai una certezza. «Quelle sono patite, molto patite e basta» aveva concluso, parlando a se stessa ad alta voce. Infine si era persuasa che, volendo fare un giro turistico, avrebbero puntato su qualcosa di più corporale; né spirituale, né culturale: tipo ingozzarsi di cibo in qualche Fast food. Non aveva idea se da quelle parti – dove il cibo slow è una cosa seria – ce ne fosse qualcuno.

Aveva provato a chiedere “Da Ivan” ristorante pizzeria, nel caso fossero passate a prendersi una pizza.

Ripensando alla giornata trascorsa insieme e alla coppa di gelato Mont’e Prama, con cui si erano strafogate, era entrata in un bar gelateria, quasi convinta di aver azzeccato il posto giusto.

A quel punto, Betta non sapeva più che pesci pigliare, anche se l’intenzione era sempre quella di andare a pescare le due sardine. Si, ma dove? Betta aveva ripreso a guidare e intanto rifletteva. Considerando la loro spiccata capacità di mettersi nei guai, niente di strano che siano finite in qualche nassa molto stretta.

Subito dopo le era sorto il dubbio che quelle matte se ne volessero partire in treno senza avvisarla; perciò aveva chiesto informazioni per sapere dove fosse la stazione ferroviaria.

Solo per caso si era ritrovata davanti al Museo de su inu, in via Giorgio Casu (pani, casu e binu a rasu). Le luci erano accese e si sentiva il suono di una fisarmonica. Attratta da quella musica che era scritta nel suo DNA, aveva deciso di entrare. Le due pazze erano insieme al musicista in canottiera che teneva in mano la fisarmonica; mentre l’altro che le aveva rimorchiate, strimpellava una chitarra. Le due donne avevano un aspetto stravolto e una voce sguaiata, intonando in coro gli stornelli galluresi. Finito di svuotare i loro bicchieri avevano cominciato a ridere senza freni inibitori. Sembravano ubriache fradice.

«Lo vuoi un bicchiere di Lughente?”» le aveva chiesto Susi, appena l’aveva vista.

«No, grazie» aveva risposto lei, con uno sguardo omicida.

«É buono. Vermentino di Gallura.»

«Si, ci credo, ho visto che l’hai gradito»

«Non sai cosa ti perdi.»

«Sono astemia» aveva aggiunto Betta, con un tono secco che non ammetteva repliche.

«La birra rossa, però l’hai bevuta, quando ci siamo fermate all’autogrill.»

«Era analcolica.»

«Eja, eja*, analcolica, certo. E io sono Anastasia. Sapessi come si sposa bene questo vino con il pecorino di Berchidda. Pani e casu e binu a rasu

«Non capisco. Parla in italiano» le aveva sibilato Betta, con un tono decisamente ostile.

«Pani, casu e binu a rasu: pane, formaggio e il bicchiere colmo di vino.»

«Allora?» l’aveva interrotta, troncando il discorso enogastronomico. «Cosa volete fare? Venite via, subito, con me, o dovete svuotare anche le botti che sono là fuori?»

« Nooo… le botti nooo… le botti fuori nooo… Quelle sono vuote. Sono là fuooo… ri solo per figura» aveva replicato Gi’, che non aveva ancora aperto bocca, biascicando le parole.

*Eja, eja: si,si.

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Discussioni

    1. Ciao Carlo, grazie. Uno dei limiti di questi miei ultimi dodici racconti (faccio autocritica), e` di rendere poco immediati i collegamenti tra una vicenda e l’ altra, o tra i vari personaggi in questione. Complicato anche per chi, come te, li ha letti tutti. A maggior ragione per un lettore che legge solo qualche episodio, immagino che farsi un’ idea ben chiara, come speravo, nel tentativo di scrivere racconti autoconclusivi, richieda uno sforzo di immaginazione ulteriore.
      O lasci, persino, dei punti oscuri. Capisco percio` la tua perplessita`.
      L’ incontro con Mary Spencer (la brunetta con lo zaino e la macchina fotografica al collo) risale al quart’ultimo episodio “Buona la quarta”.
      Ciao Carlo, un abbraccio.

    2. Ma certo! Ora è più chiaro. L’idea dei racconti autoconclusivi è molto buona e non ho avuto problemi fino adesso, è che ora i personaggi iniziano a diventare sempre di più! A presto

  1. Nei tuoi racconti c’è tutto: i volti, la geografia dei paesaggi, la musica, la natura. Il tutto ben condito da un’ottima trama che regge benissimo e una prosa molto accattivante che mescola italiano e dialetto. Che dire, Maria Luisa, sempre più brava!

    1. Grazie Cristiana 🙏. Le tue parole sono sempre molto preziose. La passione per la scrittura ci ha spinto a metterci in gioco, ma sono soprattutto i commenti benevoli come il tuoi che mi aiutano a crederci e mi spronano ad andare avanti.
      Un abbraccio.

    1. Si, e` un album del 2021, inciso con la collaborazione di tre musicisti. Un piccolo omaggio al maestro Paolo Fresu, per farmi perdonare. Primo perche` non so se ho reso bene l’ idea della sua bravura. Secondo per il mancato interesse dimostrato di Susi e Gi`, (le due pecore nere del quartetto), durante il concerto.

    1. “La bellezza e` negli occhi di chi guarda” diceva Goethe, com’ e` vero che ci sono posti belli in ogni regione o Paesi del mondo. Non so quale sia la tua zona di origine o di residenza, ma sono sicura che anche dalle tue parti ci sono luoghi meravigliosi.
      E` sempre un piacere, comunque, sapere che la nostra Sardegna ha lasciato un buon ricordo. E grazie per esserti fermato a leggere.
      Ciao.