Glitch Dreams

-Ma ci siamo trasferiti che cazzo pretendi?

La gigantesca insegna al neon della MetLife squarcia il cielo di Chicago e bussa sui doppi vetri del monolocale al diciottesimo piano.

Il letto sfatto, le bottiglie vuote.

I led sulla sveglia raccontano che anche oggi sono le 04.17

Nella penombra la tua sigaretta accesa è un missile intercontinentale puntato verso di me.

-Io non ci sognavo così! – mi urli contro come nemmeno quando godi.

-Prima le autobombe, poi la Teksmar, poi l’altra cosa che va bè. Lo sai.

Mi rimetto la canotta, quella lisa, come fosse il giubbotto antiproiettile delle guardie corporative che odio.

-Siamo in fuga da noi stessi. Guardaci.

Spacco la bottiglia contro il muro. Il southern comfort lascia colare i suoi tentacoli sulla parete. Disegna i lineamenti di Freja. Occhi sgranati. Bocca aperta. Stomaco sottosopra.

-Ehi. Sembra tu abbia visto un fantasma. Mi schernisci.

Io vomito.

-Bevi meno. Mi rimproveri.

Mi alzo e vado in bagno, mi sciacquo la bocca.

-I fantasmi non esistono.

Guardo lo specchio appannato perchè non vorrebbe riflettermi. Io non voglio riflettere. Sposto lo specchio verso sinistra e tra la muffa e il silicone residuo controllo che nel piccolo foro che ho creato ci sia ancora la mia flash drive.

Non devi scoprirla Astrid.

Non voglio che tu sappia niente. In fondo te l’avevo promesso ma fanculo le promesse. Cambierò il mondo.

Le cicatrici bruciano come fossero fresche, arriva la pioggia, sicuro.

Adesso torno da te e facciamo pace, adesso vengo di là e ti prometto che le cose cambieranno.

-Astrid asco…

Un cazzotto allo stomaco, una botta alla testa, un colpo alle gambe. Sono in ginocchio. La mia faccia si deforma per paura, per sgomento. Le corde vocali si strappano e sono muto. Il terremoto. No, sono io che tremo.

La finestra è aperta e dalla strada sale il rumore di una ballata nordica.

I tuoi capelli corti tra altre mani, mani con lo smalto rosso sangue.

Piango, o almeno credo. Tu ridi di una risata cattiva. Ridi e le tue labbra si nascondono dietro quella schiena striata di biondo.

Quel corpo che conosco bene, pezzo per pezzo, letteralmente.

Sento freddo.

Tu e lei che sembrate una cosa sola, un corpo unico.

Ho di nuovo le gambe e mi rialzo. Ho di nuovo le braccia e le tendo verso di voi.

-Vieni, te l’ho detto che i fantasmi esistono. Mi inviti.

Vengo. Lei mi accoglie, io entro. Tu urli, come neanche quando ti arrabbi.

Le ossa si mescolano alle luci e le lenzuola scompaiono. I tuoi occhi però… Rossi. La tua espressione cambia. Un ghigno. Le tue dita si allungano e le unghie fendono la sua carne. Stringi il suo collo e lei si dimena. Io muto, mi sento etereo. Non riesco a toccarvi, non posso fare niente, inerme. Io sordo non sento le sue grida disperate che tracciano l’aria e spostano il fumo.

I tuoi occhi e il suo smalto. Le tue unghie e il suo collo. Rosso. Lei si calma. La musica si ferma.

So esattamente cosa devo fare.

Infiammare il coltello come l’ago di una siringa.

Prendere il sacco.

-Siamo in fuga da noi stessi Astrid. Guardaci.

-I fantasmi non esistono. Mi dici.

Ridi.

La gigantesca insegna al neon della MetLife squarcia il cielo di Chicago e bussa sui doppi vetri del monolocale al diciottesimo piano.

Il letto sfatto, le bottiglie vuote.

I led sulla sveglia raccontano che anche oggi sono le 04.17

 

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Discussioni

  1. Un racconto in bilico fra il distopico e l’onirico. Dialoghi ottimi perché disturbanti, una narrazione quasi iperbolica. Comincia come finisce e nel mezzo restano molti dubbi. ‘I fantasmi non esistono. Mi dici.’ O forse si. Molto piaciuto