I gatti di Alice
Nello scantinato buio e freddo, Alice era rannicchiata in un angolo, con la lunga sciarpa avvolta sulla testa, sul collo e sul petto, per attenuare i brividi che scuotevano il suo corpo. Sentiva i piedi e le mani gelide, ma ciò che più di tutto la faceva tremare erano certi rumori in lontananza, forti e spaventosi. La bambina accanto a lei sembrava sola, smarrita, paralizzata dalla paura. Alice avrebbe voluto fare qualcosa: confortarla o almeno distrarla da quei rimbombi che facevano vibrare i muri. Avrebbe voluto raccontarle una favola, una bella storia con un lieto fine, per scacciare quegli orribili mostri che la sua testa, ancora troppo piccola, non poteva contenere. Avrebbe voluto rapirla con le parole, almeno per qualche minuto, condurla in un lungo viaggio col pensiero, cavalcando insieme, con la fantasia, per evadere da quella dolorosa realtà .
Alice era cresciuta a pane, latte e storie inventate. Non solo favole e fiabe, ma anche leggende, che le raccontava la nonna. Vecchie storie tramandate da una generazione all’altra, che avevano come protagoniste le janas: un po’ donne, un po’ streghe e un po’ fate. Belle e ammaliatrici, che potevano stregare gli uomini con il loro canto, le loro danze e le loro arti magiche. Erano piccole creature alate, che nascondevano le loro alucce sotto le vesti. Molto laboriose e sempre impegnate in attività di vario genere, dall’arte culinaria, alla tessitura del lino e del bisso; dal ricamo alla lavorazione dell’oro, dell’argento e del corallo. Disponevano di beni in abbondanza e di un ricco tesoro. Anche i gioielli, lavorati in filigrana finissima, sembravano ricamati con l’oro fuso. Le Janas, secondo la leggenda, erano capaci di curare ogni genere di malattia, con rimedi naturali fatti di erbe, fiori, spezie. Vivevano nelle grotte, come quelle di Santadi, in Barbagia, tra i lecci secolari del bosco.
Di solito si nascondevano e quando raramente uscivano, la notte, cercavano di non farsi riconoscere. In una delle grotte che era stata la dimora di alcune janas, sua nonna le aveva raccontato che era possibile andare a vedere realmente, in mezzo alle stalattiti e alle stalagmiti, le sagome pietrificate sulla roccia calcarea, di tre janas tramutate in pietra. Un castigo divino per aver ucciso un frate mendicante, che le aveva scoperte mangiando frittelle di carnevale le zipulas, durante il periodo del digiuno quaresimale.
Di storie come quella e di favole o di racconti del libro Cuore, adatti alla piccola, ne conosceva tanti. Lei e la bambina, però, non parlavano la stessa lingua; se avesse cercato di raccontarle una storia, non avrebbe capito neanche una parola. Alice si trovava lì quasi per caso. Aveva accompagnato Natasha, la donna che assisteva sua madre, in quel Paese così diverso dal suo, così lontano e così freddo. La figlia e la nipotina di Natasha erano in ospedale e avevano bisogno di lei. Alice si era offerta di affiancarla, in quel viaggio lungo e faticoso, con molti scali, imprevisti e ritardi, dei voli e del treno. Uno sciopero le aveva bloccate per un giorno intero, nella sala d’attesa della stazione in cui era previsto un cambio treno. Successivamente, l’autobus che, nell’ultimo tratto del percorso, avrebbe dovuto condurle finalmente a destinazione, aveva finito la benzina a causa del serbatoio bucato. Avevano dovuto percorrere alcuni chilometri a piedi, per raggiungere la fermata di un altro mezzo di trasporto pubblico, più piccolo, rumoroso e sovraffollato. Lei e Natasha aveva trovato un piccolo spazio tra due donne che trasportavano galline comprate al mercato, ancora vive.
Alice aveva affrontato tutte le difficoltà di quel lungo percorso avventuroso, senza spazientirsi; anzi, la situazione le sembrava più comica che tragica; almeno per lei che sarebbe tornata subito indietro, al suo bel Paese. Durante la notte, però, c’erano state le prime offensive di guerra. Avevano colpito una zona molto più a sud. Alice era riuscita a rimettersi in viaggio, per andare a prendere di nuovo il treno. Poco prima di raggiungere la stazione, era suonata la sirena e tutti gli abitanti della zona avevano dovuto precipitarsi verso quel rifugio precario. Anche lei era andata appresso a quella coda di persone che si affrettavano, per strada, tutte nella stessa direzione.
La bambina, seduta sul pavimento dello scantinato, era rimasta ferma per più di un’ora; sembrava incapace di muoversi, non piangeva e non si lamentava. Probabilmente era sotto shock. Alice, osservandola, sentiva un misto di tenerezza materna e un’angoscia crescente. L’espressione innocente, indifesa e imbambolata della bambina era straziante. Sicuramente raggelata dal freddo, da un senso di abbandono e dai rumori assordanti che provenivano da fuori.
Alice si era tolta la sciarpa che l’avvolgeva e l’aveva messa addosso alla piccola. Lei non aveva battuto ciglio, sembrava incapace di reagire. Aveva aperto la borsa per controllare se avesse ancora qualche caramella morbida al latte. Ne erano rimaste soltanto due. Usando la limetta del tagliaunghie ne aveva diviso una in tre parti. Il primo pezzetto glielo aveva dato subito. Il resto lo aveva lasciato a dopo.
La bambina succhiava, non sorrideva e non sembrava più contenta, neanche un po’. Aveva lo sguardo fisso davanti a sé, come se l’avessero ipnotizzata. Per un attimo Alice aveva pensato di scuoterla dolcemente, con qualche filastrocca per bambini. Guardandosi intorno, per associazione di idee, le era venuta in mente una vecchia canzoncina dello zecchino d’oro, che le aveva insegnato sua madre. “Nella cantina di un palazzone / tutti i gattini senza padrone / organizzarono una riunione / per precisare la situazione… ” Si intitolava Quarantaquattro gatti. Subito dopo Alice aveva pensato che quello non era il luogo adatto per mettersi a cantare allegramente, con tutta la disperazione e il terrore che accomunava l’espressione sui volti delle persone intorno a lei.
Fra le tante cianfrusaglie che Alice aveva in borsa, aveva trovato anche un piccolo block notes e un pennarello nero. Molti anni prima aveva frequentato un corso base di graphic design. Il disegno le era sempre piaciuto. La fantasia non le mancava e un po’ di tecnica l’aveva acquisita; anche se poi aveva finito per diventare un’impiegata di banca, col posto fisso e lo stipendio garantito tutti i mesi, come volevano i suoi genitori. Il primo periodo dopo l’assunzione, i suoi amici la prendevano in giro con le parole di un’altra canzone, di tutt’altro genere. La strofa che le ripetevano spesso poneva una domanda “Ti sei salvato dal fumo delle barricate e sei finito in banca pure tu?” Era la canzone di Venditti  Compagno di scuola.
Alice aveva avuto un’altra idea. Col pennarello aveva iniziato a disegnare un gattino che, in assenza di colori, appariva maculato, in bianco e nero. Lo aveva disegnato in una posizione diversa in ogni foglietto: mentre mangiava, mentre dormiva, mentre si arrampicava sopra un albero, mentre inarcava la schiena, mentre inseguiva un topolino… Accanto alle figurine del gatto, aveva disegnato, ogni volta, una bambina con il viso scarno, i capelli corti e scarmigliati, gli occhi grandi e tristi. Era il ritratto preciso della piccola che stava accanto a lei. I tanti disegni messi in successione formavano una sequenza che dava il senso di movimento del gatto, accompagnato dalla figura inseparabile della bambina. Era diventato quasi un fumetto, con le nuvolette che racchiudevano i vari tipi di miagolii emessi dal gatto, a seconda dell’azione che stava compiendo. Quando Alice si era avvicinata per mostrarle quel gioco, la piccola aveva sgranato gli occhi, aveva toccato il foglio indicando il gatto e ne aveva pronunciato il verso. Forse anche lei, in casa, aveva un micio bianco e nero. Sicuramente i gatti le piacevano. Il suo sguardo si era ravvivato. Dopo averle mostrato i disegni, le aveva dato un altro pezzetto di caramella. A quel punto lei aveva accennato un sorriso.
Dopo il cessato allarme tutti si erano precipitati fuori dallo scantinato. La stazione non era distante. Molti avevano preso il primo treno che li avrebbe portati lontano, il più possibile, da quell’inferno.
La bambina aveva seguito Alice, cercando la sua mano, ed era rimasta con lei, durante il viaggio e oltre, in attesa di sapere che fine avessero fatto i suoi genitori. In tasca aveva un foglietto col suo nome e quello di sua madre. Dopo lunghe ricerche, l’esito era stato lo stesso che accomunava migliaia di bambini come lei, rimasti orfani dopo la fine di una guerra. Creature inermi, sopravvissute al massacro, con profonde lacerazione interiori, dovute al trauma dell’abbandono, della perdita, dei boati provocati dalle bombe. Bambini destinati a cambiamenti drastici, da una casa all’altra, o anche da una nazione all’altra, in luoghi sconosciuti e lontani dalle macerie della loro casa.
Per la piccola Nina la vita non sarebbe stata facile ma, perlomeno, in uno scantinato buio e freddo, aveva trovato una mano a cui aggrapparsi. Poco tempo dopo anche tanti piccoli amici pelosi (veri), che avrebbero attenuato le sue paure e la sua ansia.
Il nome di sua madre, da allora, è diventato Alice.
Avete messo Mi Piace4 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Questo tuo racconto mi ha ricordato ancora una volta che non è il parto a fare di una donna una madre, ma l’amore
Grazie Micol. Per me e` stato sempre cosi`: tanti bambini, nessun figlio biologico, ma molte creature come se fossero parte di me, che mi hanno addolcito la vita.
Io sono figlia di madri putative e mi è andata di lusso!
Grazie Nyam, sei gentile. Ricambio l’abbraccio e spero che la buona intesa tra noi Openiani sia utile per diffondere onde energetiche positive di pace.
Cara @Cedrina, invidio molto la tua capacita’ di scrivere su quel che sta succedendo, il tu coraggio nel farlo, ed il farlo senza cadere nell’ovvio o nel patetico. Permettimi un abbraccio.
Bellissimo racconto drammaticamente attuale. Complimenti per le descrizione fisiche ma anche emotive. Ho apprezzato molto anche la storia delle janas. Brava!
Grazie Carlo, mi rincuori. Avevo paura che potesse apparire come una favoletta banale, anche se il mio intento era quello di porre l’accento sulle drammaticita’ delle guerre, che colpiscono gli innocenti (non solo i bambini) e sulla necessita´ di dare una mano, ciascuno come puo´, a modo suo.