I Morti Sanno Tutto

Ci sono viaggi che non si dimenticano.

Non perché siano stati belli o importanti.

Ma perché ti si conficcano nelle ossa.

Un freddo che non passa mai. Una voce che continua a parlare anche dopo che è finito tutto.

Uno di quei viaggi, il più assurdo, l’ho fatto su un carro funebre.

Non per lavoro. Non per caso.

Ma perché c’eravamo solo io e lei.

Magari, un giorno, se il cervello smette di mordermi da dentro, ve lo racconto per bene.

Per ora basti questo:

quel giorno è stato il più lucido della mia vita.

Lucido e gelido.

Come la pelle di mia madre mentre chiudevano la bara.

I morti sanno tutto.

Ogni gesto che faccio. Ogni pensiero che mi attraversa anche solo per sbaglio.

Loro lo conoscono e mi anticipano.

È la mia verità, scoperta.

Mi stanno addosso. Giudicano. Sussurrano. Commentano. Ridono.

Mi inchiodano dal buio che sa di pietra e muffa.

Le mie manie, i miei tremori, i pensieri a scoppio ritardato — sono offerte votive al loro sguardo invisibile.

Le paure? Mia madre.

Tre figli prima di me. Morti.

Bambini mai cresciuti abbastanza da sentire caldo o freddo, o un compleanno con le candeline.

Li ha sepolti in silenzio, uno alla volta.

A volte la sentivo parlare da sola in cucina, col gas spento, le mani ferme sul tavolo.

Diceva che venivano a trovarla nei sogni. Che la notte bussavano piano alla porta della camera.

Non urlava, non piangeva mai. Parlava con la calma sacra di chi ha visto davvero.

Una volta mi svegliai e la trovai in corridoio, ferma davanti alla porta del ripostiglio.

“Che fai, mamma?”

“Sta qui, tua sorella. Ma non può uscire.”

Avevo sette anni e, senza volerlo, imparai a non fare domande.

Io sono cresciuto nel mezzo.

Tra i vivi e i morti.

Tra la parola e il sussurro.

Con l’angoscia addosso come una maglietta troppo stretta.

Li sento ovunque: dietro le porte, nelle ombre, nelle pause dei rumori di casa.

Oggi, a quarant’anni suonati, so con certezza che i morti mi tengono d’occhio.

Mi scrutano quando mi gratto, quando mi sollazzo di notte davanti a un porno che gira a scatti, quando scrivo messaggi che non invierò mai.

Li sento dietro di me se mi chino a raccogliere qualcosa, li vedo nei riflessi opachi delle finestre.

Non serve che parlino: il loro silenzio sa di giudizio.

Sono loro: zii, amici, compagni di scuola finiti male.

Io sono già mezzo morto.

E loro lo sanno.

Mia madre diceva:

“Prendi le medicine.”

Diceva:

“Non sono veleno.”

Diceva:

“I dottori stanno dalla tua parte.”

Ma io ero già sepolto.

Da prima. Da sempre.

La mia vita è una messa storta. Una liturgia fatta di ossessioni.

C’è solo una parola:

Mica.

Mica ho fatto male a qualcuno.

Mica ho provocato un incidente.

Mica ho spostato qualcosa che non dovevo.

Mica ho pensato troppo forte.

Mica ho contagiato mia nipote con gli occhi.

Mica, mica, mica.

Una cantilena acida che mi apre il petto da dentro.

All’inizio le dicevo solo nella testa.

Ora le sussurro ovunque.

A tavola. In bagno. Sotto la doccia.

Mentre passo davanti alla TV, accesa o spenta, poco cambia: non la guardo mai, continuo solo a ripetere la mia formula, come un rosario che non porta salvezza.

Ho smesso di guidare.

Troppa ansia.

Ho costretto mio padre, una volta, a rifare con me tutto il tragitto:

curva per curva, incrocio per incrocio.

Per cercare il morto che forse avevo investito.

Non c’era.

Ma io non ero tranquillo.

“Papà, ma hai visto anche tu il bambino col pallone?”

“C’era una donna alla fermata o l’ho immaginata?”

“Tu hai sentito quel tonfo o è solo nella mia testa?”

Mi guardava come si guarda una tazza che sta per cadere.

Col dispiacere già pronto.  

Eppure, due anni fa ero quasi felice.

Un lavoro a tempo. Uno stipendio di quelli che ti fanno sentire quasi una persona.

Guidavo. Parcheggiavo. Mi lavavo.

Il 3 aprile del 2023 ho guidato un carro funebre.

Io. Davvero.

Nessuna metafora.

Era il funerale di mia madre. L’ultimo viaggio, dicevano.

Io lo feci.

Senza musica. Senza fiori. Solo io, il motore basso, e lei dietro.

Distesa. Immobile. Presente.

Il legno lucido della bara rifletteva i lampioni come fosse acqua scura.

Ogni curva era una ferita: temevo che da un momento all’altro potesse scivolare, che il coperchio si aprisse, che lei si voltasse a guardarmi un’ultima volta.

L’odore dolciastro dei fiori chiusi nel portabagagli si mischiava a quello dell’imbalsamazione, e mi entrava nei polmoni come una nebbia calda.

Per tutto il tragitto, vedevo le persone sul marciapiede abbassare lo sguardo.

Come se, a incrociare i miei occhi, potessero anche loro finire nel corteo.

Io non guardavo nessuno.

Il rumore delle gomme sull’asfalto era un battito lento, costante.

Il mio respiro, invece, sembrava correre.

Ogni semaforo rosso diventava una condanna a stare fermo, a sentirla lì dietro, a immaginare che mi stesse ascoltando.

E forse lo faceva davvero.

Mia madre non mi aveva mai preso in braccio come fanno le madri nei film.

Non era il tipo da “ti voglio bene” sussurrati.

Era il tipo da “mettiti la maglia” anche a luglio, da “mangia” anche se non avevamo fame.

Ma il suo modo di esserci era costante, come una febbre leggera che non passa mai.

Quando il prete intonò il “Requiem aeternam”, io non sentivo la musica.

Sentivo lei.

Come quando da bambino mi osservava studiare, seduta dietro di me, in silenzio.

Avevo la stessa sensazione: se mi fossi girato, l’avrei trovata lì, occhi fermi, mani intrecciate.

E in un certo senso, quel giorno, c’era davvero.

Solo che stavolta io ero davanti e lei dietro.

E non c’era più niente da studiare.

Quel giorno — lo giuro — non ho investito nessuno.

Ma da allora, forse, ci sono passato io sotto quel carro.

E non mi sono più rialzato.

Vivo a metà. Vivo di notte.

Quando la casa tace e i morti fanno meno rumore.

Mi sveglio col pensiero fisso che domani potrei uccidere qualcuno senza volerlo.

Anche solo col pensiero.

Anche solo immaginandolo male.

Una volta ho pensato a mia zia che cadeva.

Il giorno dopo, è scivolata sulle scale.

Coincidenza?

I morti non credono alle coincidenze.

Io nemmeno.

La gente mi guarda e non capisce.

Pensano che sia teatrale. Che voglia attenzioni.

Che mi piace il dolore come i matti da film.

Ma no.

Non è una posa.

Non è spettacolo.

È una guerra.

E la sto perdendo.

Ma non ditelo a mia madre.

Soprattutto adesso che non può più venire a prendermi.

O forse sì.

Forse è già qui.

Seduta davanti a me, su una sedia che nessuno vede.

Mi fissa.

Come sempre.

E io abbasso lo sguardo.

Come ogni figlio che ha già perso due volte.

E aspetta la terza senza dirlo a nessuno.

Avete messo Mi Piace2 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. Bellissimo racconto, lo apprezzo davvero. Oltre al ritmo dato dalle frasi brevi, che portano un’eco di morte, trovo veramente interessante il confine, estremamente labile e sbiadito, che proponi fra il mondo reale e l’aldilà, creando una commistione veramente interessante. Bravo.

  2. Ciao Lino. È interessante questa versione che proponi del confronto con la morte. Diventa ancor più solenne nella forma cadenzata, che hai scelto per la stesura, quasi fosse il passo stesso del corteo funebre. Credo che, al di la della misteriosa introduzione, dove pare che il prsonaggio racconti dall’aldilà, esprima bene l’unicità che il dolore assume per ciascuno di noi. Grazie per la lettura

    1. Ciao Paolo, grazie davvero per la lettura attenta. Hai colto bene il senso del testo e quel ritmo cadenzato che richiama il corteo funebre. In effetti la frase iniziale poteva trarre in inganno, sembrava quasi che il narratore parlasse dall’aldilà. L’ho modificata proprio per evitare l’ambiguità e rendere chiaro che si tratta del figlio che guida l’ultimo viaggio della madre.

  3. Una delle cose che ammiro della tua scrittura è il tuo essere così poliedrico, non si riesce a metterti addosso un’etichetta, anche perché sarebbe davvero difficile ingabbiarti in una definizione e scegliere lo scritto che ti rappresenta di più. Complimenti all’infinito.

    1. @LegGoriferito Grazie di cuore per queste parole. Le sento vere, e arrivano in un momento in cui ne avevo bisogno.
      Non so mai se quello che scrivo colpisce per merito o solo per ferita, ma so che scrivere è l’unico modo che ho per restare in piedi.
      Non cerco etichette, né certezze. Solo un posto dove lasciar respirare quello che ho dentro.
      E se ogni tanto arriva qualcuno che sente davvero, come hai fatto tu, allora vuol dire che ne vale ancora la pena.
      Ancora di più se a dirlo è uno scrittore vero. È davvero tanta roba..