Il bene più prezioso

Serie: Il bene più prezioso


Questa non è una serie. È un racconto unico, diviso in due parti per ovviare al problema del limite di caratteri. Ho preferito spezzare il racconto in due, invece che apportare stravaganti tagli al testo integrale.

«Qual è il bene più prezioso del mondo?»

Con questa domanda il Professor Princton iniziò la lezione del 13 aprile ai suoi ventitré alunni, ancor prima di rivolgere il consueto e formale saluto di ingresso in aula. Ed era strano, perché il Professor P, così lo chiamavano gli studenti e pure gli altri insegnanti, fino agli amici più intimi, era uno che il saluto formale non lo faceva mai mancare. Ed era pure affezionato ai riti, alle tradizioni, ad una certa quotidianità che non lo abbandonava mai. Ma non nel senso che la subiva, quanto più che la dominava.

Che fosse una giornata diversa dalle altre lo si era capito subito. E lo era per cinque motivi. Tanto per cominciare, pioveva. E nella piccola città del Professor Princton non pioveva quasi mai. Ventuno millimetri totali di pioggia annua, concentrati per lo più in un mese o due. Quello non era di certo il periodo delle piogge.

Gli alunni del Professor Princton si resero subito conto che stava piovendo, non perché guardarono fuori dalla finestra, che era abbassata almeno per i tre quarti, ma perché si accorsero che la punta delle scarpe del Professor Princton era bagnata, così come notarono altre gocce d’acqua sui pantaloni, più o meno all’altezza delle ginocchia. Il che poteva significare due cose: il Professor Princton non aveva portato l’ombrello, ipotesi remota perché in quel caso sarebbe stato tutto bagnato; il Professor Princton aveva con sé uno di quegli ombrelli in miniatura, che a malapena riescono a coprire il viso. Quasi tutti gli studenti scelsero questa seconda opzione, benché nessuno avesse visto entrare il Professor Princton con l’ombrello.

Prima di sedersi, il Professor Princton fu oggetto di una nuova, accurata osservazione da parte dei suoi alunni, che non poterono fare a meno di notare che aveva abbandonato il completo blu petrolio che lo vestiva nelle sue giornate. In tutte le sue giornate. Tanto che le malelingue si chiedevano se indossasse sempre lo stesso o ne avesse più paia uguali, così da mantenere lo stile senza perdere la dignità personale.

Ma ancora di più, andava per la maggiore chiedersi se il Professor Princton si facesse queste stesse domande, se si rendesse conto che vestiva sempre allo stesso modo o peggio, se gliene importasse.

Quel giorno il Professor Princton era vestito di nero. Aveva un completo nero, il soprabito nero, la cintura nera e le scarpe, pure quelle, nere. E questo costituiva il secondo motivo per cui quella era una giornata diversa dalle altre.

«Il diamante» esclamò sicuro Paul Saurgeine, primo banco fila a destra dalla prospettiva del Professor Princton, sicuro della risposta che aveva qua e là qualche decina di volte.

«No» rispose altrettanto fermo il Professor Princton.

«Come no?»

«No. Non è questa la risposta che sto cercando. Non è questa la risposta che stiamo cercando.»

Il Professor Princton scosse la testa come gesto di disappunto, in un modo quasi impercettibile, come se lui stesso volesse tirarsi indietro all’ultimo momento. Ma avendo già inviato l’input al cervello, non riuscì a nascondersi. Il risultato fu che se ne accorsero tutti.

Il Professor Princton voleva bene ai suoi studenti, ma aveva l’idea che facessero a gara a chi dava la risposta per primo, invece di quella giusta. E infatti, dopo l’immediata reazione di Saurgeine, l’aula calò nel silenzio per i secondi successivi. Il Professor Princton non aggiunse altro anche lui. Principalmente per due motivi: intanto voleva far vincere quell’imbarazzo iniziale dove nessuno ha il coraggio di rispondere. O forse, anche a coraggio acquisito, l’iniziativa viene accantonata per paura di fare brutta figura, di essere deriso dagli altri compagni. Saurgeine del primo banco faceva eccezione, era sempre uno dei primi ad aprire bocca e a preferir dire invece che ragionare.

E in secondo luogo, il Professor Princton temporeggiava. D’un attesa dove non sapeva se dire subito lui la risposta che voleva, o aspettare all’infinito che qualcuno lo soddisfacesse. C’era sempre, in lui, una sorta di ostentazione del sapere, tanto che spesso finiva col rispondere prima dei suoi studenti con un certo orgoglio, come a dire che la risposta poteva conoscerla solo lui, quasi dispiacendosi se qualcuno l’avesse trovata prima. Ma al contempo la faceva risultare come se fosse la risposta più facile da trovare al mondo.

«Non era evidente?» diceva sempre.

È come quando si crea un indovinello e si spera sotto sotto che la soluzione non venga trovata, così da poterla svelare a voce stentorea, petto in fuori, come uno di quei prestigiatori da strada che chiedono di indovinare la carta giusta. Sembra che vogliano rispondersi da soli e gridare: “Ve l’ho fatta!”

Ecco, il Professor Princton il più delle volte finiva col rispondersi da solo.

Ma un insegnante non dovrebbe godere del trasmettere il proprio sapere ai suoi studenti? Non dovrebbe vivere soddisfazione più grande se non quella di percepire che gli alunni hanno appreso da lui?

Il Professor Princton se lo chiedeva di continuo, ma non trovava mai risposta. Era un orgoglio a tempo, il suo. Che talvolta nutriva per se stesso, altre volte per quello che faceva con i suoi alunni. Non sapeva scegliere quale preferiva.

Anche gli studenti volevano bene al Professor P. Perché spiegava bene la materia, dicevano, perché aveva una grande proprietà di linguaggio, continuavano e perché era indulgente. Scrupoloso, ma indulgente. Non c’è niente di meglio, per uno studente, che poi alla fine il Professore si risponda da solo! Appariva come tutto d’un pezzo, senza dubbi, circondato da un alone di superiorità che lo proteggeva, che manteneva le distanze. Sembrava quasi un superuomo, come qualcuno che non necessita dei bisogni primari. Tra gli studenti andava di moda chiedersi: «Mangerà? Dormirà? Andrà in bagno? Morirà anche lui?»

Sì, gli volevano bene. Fatto salvo per l’abbigliamento sempre uguale, anche se a onor del vero nessuno si era mai lamentato di un presunto cattivo odore. E gli volevano bene anche per altre due o tre abitudini che destavano curiosità, quantomeno. In realtà il Professor Princton di abitudini ne aveva più di due o tre, ma i suoi studenti non ne erano a conoscenza. Tra quelle che sapevano, c’era il volersi lavare spesso le mani, almeno una volta all’ora, il che suscitava una certa ilarità, per una persona che vestiva sempre allo stesso modo.

Poi c’era altro: il Professor Princton non tossiva mai. Mai. Tutti potevano giurare di non avergli mai sentito fare un colpo di tosse, né per cibo o acqua, né per una frase andata di traverso, né per malattia. Un pieno controllo dei propri mezzi e un salute di ferro, forse.

E poi ancora, il chiudere la porta dell’aula sempre allo stesso modo, con un movimento veloce che sembrava presagire un Bam! da far rimbombare le pareti più lontane, ma che invece rallentava proprio quando mancavano un soffio di centimetri alla chiusura, così da evitare il rimbombo e diventare d’improvviso, dolce. Faceva sempre così, senza guardare. E non sbagliava mai. Lo rendeva così naturale da sembrare che non lo calcolasse. E forse era così per davvero.

Quella mattina il Professor Princton la porta l’aveva lasciata aperta. Il che costituiva, senza alcun dubbio, il terzo motivo per cui quella era una giornata diversa dalle altre. Ma ancor più incredibile fu che, dei ventitré studenti, nessuno lo notò. O almeno, non sul momento. Forse perché tutti furono stupiti prima dal suo completo nero. O forse perché erano distratti dai suoi vestiti bagnati. Sta di fatto che la porta rimase aperta tra l’indifferenza generale.

«Professor P, ci scusi, ma la domanda non è chiara» disse Margaret Sulley, secondo banco fila centrale, dalla prospettiva del Professor Princton. Margaret era quella che tutti chiamavano codalunga, per via dei suoi capelli, in effetti lunghissimi.

«Come non è chiara?»

«Beh, ci parla di bene prezioso, tutti sappiamo che è il diamante. Non è così?»

«No. Forse. Come bene materiale, forse. Chi ha detto che cerchiamo un bene materiale?»

«Beh, ma lei ha detto il bene più prezios…»

«So bene cosa ho detto» in tono fermo e solenne il Professor Princton.

Ci furono alcuni secondi di silenzio generale, probabilmente perché il tono del Professor Princton era stato più deciso del solito. Nessuno ebbe il coraggio di rispondere, ma ancora più probabile, nessuno aveva idea della risposta corretta. Qualcuno iniziò a pensare che fosse una domanda per gioco, una sorta di trabocchetto. Il silenzio fu rotto da Anita Seyfried, la più piccola della classe, per età e per statura, quarto banco fila destra, dalla prospettiva del Professor Princton:

«Dio?»

Ci fu stupore più che silenzio. Da parte di tutti, persino sul volto del Professor Princton, che riuscì a non mostrare segnali evidenti. Qualcuno iniziò a pensare che la risposta fosse corretta.

Serie: Il bene più prezioso


Avete messo Mi Piace3 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. per ora posso dire che mi hanno colpito i nomi dei personaggi o meglio, forse, i cognomi. Cosa stanno cercando? Non posso ancora dirlo con certezza, ma non credo che “Dio” la sia risposta giusta. Dio è una risposta che non sbaglia mai, e perciò non può essere né giusta né sbagliata. È come dire che due più due fa quattro: ma non è sufficiente. È solo esatto, ma l’esattezza non è la verità. Vedrò dove vuoi andare a parare.

    1. scusa, non “la sia risposta” ma “sia la risposta”. A volte mi imbroglio con la tastiera, abbi pazienza.

      1. Grazie per i commenti 🙂 diciamo che il racconto è da concepire come un racconto unico e non come una serie. Ora è stato pubblicata la seconda parte , suggerisco di leggerlo tutto insieme.