Il coinquilino

-Sei contenta di tornare a casa?

– Sì, – gli risposi– ci sono un po’ di persone che voglio vedere. Non so ancora come riuscirò ad incastrare tutti i regali in valigia però. Tu sei pronto per il tuo esame?

-E’ una cagata, a Padova facevo esami più difficili.

Una frase che ho sentito spesso in questi mesi, mai con tono arrogante.

Giovanni appartiene alla categoria degli studenti a cui non pesa studiare, non importa quanto difficile sia la materia. Alcuni ragazzi varcano le aule universitarie solo per sentirsi meglio; i genitori pagano la retta quindi almeno lo sforzo di andarci, a lezione, lo fanno. Poi poco importa se metà del tempo lo passano al telefono a chattare, a giocare a Candy Crush, e l’altra metà a scambiarsi gossip con l’amico, anche lui lì con le medesime intenzioni. Giovanni era diverso, aveva passione. Cinque anni prima aveva scelto la facoltà di Matematica all’Università di Padova e per lui studiare equivaleva a divertirsi. Passare le ore seduto alla sua scrivania con il calar del sole; in tuta, sempre la stessa, e Crocs ai piedi. Appena giunta la sera, accendeva la sua lampada e con la testa bassa continuava i suoi calcoli matematici, ignaro dello sguardo dei nostri coetanei che lo scrutavano dalla vetrata. I gallesi non sono famosi per essere esperti di alta moda, ma sono certa abbiano avuto comunque qualcosa da ridire sul suo look.

Ore ed ore aggrovigliato a quella scrivania, come se lo stessero tenendo in ostaggio, o viceversa, la scrivania supplicava qualche ora di libertà. Non ho mai ben capito i corsi che seguisse, le materie che studiasse e tutto ciò di cui mi raccontava. Perfino quando mi ha mostrato la sua tesi di laurea non ho fatto molte domande; ho aperto la prima pagina, gli ho fatto i complimenti e poi l’ho richiusa, alla stessa velocità con cui si chiude un messaggio su Whatsapp che non avresti mai voluto leggere.

Il suo era un pianeta lontanissimo dal mio e la mia quasi laurea in storia dell’arte voleva starci alla larga.

Su molti versanti apparivamo diversi.

Il primo giorno che lo conobbi decise subito di mettere in chiaro la sua routine:

-Vado in palestra sei giorni su sette, la sera devo cucinare i pasti per il giorno successivo e seguo una dieta rigida.

Ecco, il tipico fighetto che non tocca un carboidrato da chissà quanto e che, davanti allo specchio, glorifica il suo torso nudo, scattandosi selfie.

Ero preoccupata, lo ammetto. Il pensiero di un coinquilino italiano mi aveva già fatto assaporare momenti che mi avrebbero per un attimo fatta sentire al sicuro dentro le mura di casa. Le serate a fare le spaghettate insieme, le ore ad attendere che l’impasto della pizza lievitasse, per poi condirla con gli ingredienti pessimi trovati nei supermercati gallesi, rovinando quella palla soffice di acqua farina e lievito.

Niente di tutto ciò è mai successo. O meglio, IO ho fatto le spaghettate ed IO ho impastato la pizza. Il massimo che siamo riusciti a fare insieme è stato comprare una piantina di basilico, per poi vederla morire.

Quella piantina di basilico è durata quanto le mie paranoie su Giovanni.

Nei miei sei mesi a Cardiff limitavo i piatti di tagliatelle, ravioli, gnocchi e qualsiasi formato di pasta che il nostro paese ha da offrire; pollo o salmone contornati da verdure o patate avevano preso il loro posto. In pratica, mi sono adattata all’alimentazione di Giovanni, o soprattutto, a ciò che i supermercati offrivano. Non sono mai stata così snella come in quei sei mesi e devo dire che neanche mi è dispiaciuto.

Ancora prima di firmare il contratto che lo avrebbe portato a condividere la sua rigida routine con una sconosciuta, Giovanni era andato ad iscriversi in palestra. Una palestra costosa rispetto alla media, vicina all’università, moderna, con spogliatoi e bagni spaziosi, ma soprattutto, puliti. Per sei mesi ha fatto la doccia lì, come biasimarlo. Durante la ricerca della casa, alloggiava come me in un ostello in centro ed evidentemente lì il bagno non era così lustro.

Dovete sapere che a Cardiff, e in tutto il Regno Unito, le case per studenti vengono servite sporche, appiccicose. Durante la ricerca della casa mi è bastato poco per capirlo. Case piccole, costruite senza un senso logico il più delle volte, moquette (ovviamente) e il famoso “back garden”, conosciuto anche come “giardino di cemento umido che userai solo quando dovrai stendere i vestiti bagnati”. Quando non piove. Quindi mai.

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Discussioni

  1. Scorrevolissimo racconto che si legge d’un fiato. Hai rappresentato attraverso un narrare giovane e preciso un quadro di vita universitario e non solo tra due persone nelle loro abitudini e aspettative. Entrambi calati in terze abitudini, quelle che si svolgono a Cardiff. Brava.

  2. “Alcuni ragazzi varcano le aule universitarie solo per sentirsi meglio; i genitori pagano la retta quindi almeno lo sforzo di andarci, a lezione, lo fanno. Poi poco importa se metà del tempo lo passano al telefono a chattare, a giocare a Candy Crush”
    👏 👏

  3. Freshy style per questo simpatico excursus sulla vita universitaria moderna. Mi ha fatto sorridere, come sorriderebbe Pai Mei di Kill Bill, portandomi indietro negli anni, quando anche io bazzicavo i campus. Ai miei tempi, ci sentivamo i CCCP, si rimorchiavano ragazze coreane e francese, passando loro spinelloni e dicendogli: “E’ una questione di qualità”. Ti batto il cinque per il freshy style, è un racconto che se non lo traduci con Google Treduttore ma da uno serio, puoi far girare anche nel village. Bravo.