IL CRONOMETRO E LA CROCE

Alle otto in punto scatta il primo ticchettio. Non so se sia il cuore, il cronometro, o la condanna. Tanto uno batte, l’altro conta, e il terzo aspetta solo il momento giusto.

La strada è la stessa da anni: lampioni gialli, vetrine spente, auto che rallentano per sbirciare senza mai fermarsi davvero. Lì espongo la merce: posa studiata, calza tesa, parrucca impeccabile, sguardo da attrice in tournée eterna.

So vendermi. So leggere gli uomini. I gentili. I rapaci. I disperati. I miei prezzi restano uguali, ma il mio valore cambia ogni notte. Come il valore dell’oro: dipende da quanto sei disposto a farti scavare.

Mi chiamavano Andrea. È ancora scritto sulla carta d’identità, come un errore che nessuno ha corretto. Ma io sono Lia. Lia è la corazza. Il nome scelto. La tregua.

Da piccola portavo la veste bianca da chierichetto. Avevo dieci anni quando il parroco mi fece sedere in sacrestia. “Dio ha piani speciali per te,” sussurrò. Poi usò le sue mani per strapparmi via la voce e lasciarmi dentro un silenzio che nemmeno Dio ha mai provato a riempire. Quando ebbe finito, mi regalò tre santini, un portachiavi e un’ostia. “Inghiottiscila,” disse, “così anche Gesù entra in te.”

Ci ho messo anni per capire la finezza. Lì ho imparato che il sacro può ferire. Che la purezza è una parola che sporca.

A scuola mi dicevano ricchione. Amanda Lear. Mezza femmina. Ridevano dietro, sputavano davanti. Poi, però, alcuni venivano a casa. Con la scusa dei compiti. Si sedevano vicini. Io spiegavo, e loro allungavano una mano sotto il tavolo, senza dire nulla. E io lasciavo fare. In silenzio, pensavo: chi è il vero ricchione, adesso?

Non ho fatto l’operazione. Non perché non posso, ma perché quel pezzo lì ha resistito a tutto. È l’unico che ha memoria. La transizione è stata parziale e spietata. Ho venduto l’anello di mia madre, i mobili buoni, la dignità di chi voleva aspettare. Ho pagato per ogni centimetro di cambiamento. Il corpo si è trasformato, il mondo no.

La parrucca è l’unica corona che mi sono concessa. Finta, ma dritta. Come me.

Poi è arrivata la diagnosi. HIV. Un verdetto già scritto, solo da aprire. I medici parlano di carica virale. Io penso a quella emotiva. A quanto pesa dirlo. Spiegarlo. Portarlo addosso. Credevo di essere già vuota. E invece c’era ancora qualcosa da perdere: la pelle, il futuro, la voglia di guardarsi allo specchio.

Con Gino sono stata chiara: preservativo sempre. Non per paura. Per rispetto. Lui ha accettato. Come se sapesse che il mio corpo ha confini sacri.

Gino è diverso. Mi chiama “lei”. Mi ascolta anche quando sto zitta. Dice che potrei lavorare in libreria, che sono “una donna da romanzo”. Una volta mi ha aspettata due ore sotto la pioggia solo per darmi un ombrello.

“Tu attraversi tempeste,” ha detto. “Io almeno posso aspettarti in strada.”

Io sorrido, ma dentro si spacca qualcosa. Perché non sa che creature come me non le vogliono mai leggere ad alta voce. Ci hanno solo chiesto di tacere. Bene. Per sempre.

A volte entro in chiesa. Mi siedo in fondo, con i tossici puliti e le vecchie piene di conti in sospeso. Non prego. Non parlo. Respiro. Tutto qui.

L’altra sera mi sono truccata con cura. Corsetto rosso. Calze nuove. Il vestito buono. Ho ripassato la bocca due volte, per non sbagliare. Gino ha scritto, ha suonato, ha aspettato. Non ho aperto. Non per cattiveria. Solo perché a un certo punto, anche l’amore suona come un’altra tassa da pagare.

Ho preso la boccetta. Quella piccola. Quella che avevo tenuto per un momento giusto che non arrivava mai. L’ho messa in borsa, accanto ai fazzoletti e al rossetto. E sono uscita.

Ho camminato fino alla chiesa. Mi sono seduta sui gradini. Sigaretta accesa. Gambe accavallate. Le luci interne erano spente. Dio dormiva. O faceva finta. Il vetro della porta rifletteva la mia figura, distorta. Sembravo una madonna di plastica, caduta dal cruscotto.

Ho pensato a tutte le cose che non sono diventata. A tutto il sangue non visto. Ai santi che non hanno fatto niente. Ai medici che non ti toccano senza guanti. Agli uomini che ti baciano solo col cazzo.

Ho pensato: basta.

Ho preso la boccetta. L’ho aperta. Non ho fatto un brindisi, non ho scritto una lettera. Ho solo ingoiato. Lì, sui gradini della chiesa. Con il vestito rosso. Con la parrucca ancora perfetta. Con tutto l’amore che nessuno ha saputo portare fino in fondo.

Se Dio guarda, che lo faccia bene. Perché stasera non muoio. Mi scelgo.

E se un giorno mi nomineranno, non dicano: “era un travestito”.

Dicano: “ha resistito come poteva, e alla fine si è scelta”.

Il resto — la parrucca, il vestito rosso, la croce che portava addosso — erano solo dettagli di scena.

Avete messo Mi Piace1 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. Davvero un bel brano. Una prova difficile su un tema urgente più che attuale, perché chissà quando potremo dire davvero di aver superato certe crudeltà. Complimenti e grazie per averlo condiviso

  2. Un racconto toccante, a tratti quasi poetico, ma soprattutto doloroso. La sofferenza di chi é vittima dell’ipocrisia, dell’ignoranza dell’egoismo spietato. La straordinaria sensibilità con cui riesci a narrare le storie continua a colpirmi.

    1. Grazie davvero, mi fa un enorme piacere leggere le tue parole.
      Questo racconto, in realtà, nasce da una poesia che avevo scritto tempo fa. Poi ho sentito il bisogno di trasformarla in prosa, cercando di mantenerne lo stesso respiro e la stessa intensità.
      Quando affronto certi temi, però, ho sempre dei dubbi: non so mai se riesco davvero a trasmettere quello che sento, o se rischio di forzare troppo.
      E confrontarmi con la bravura di voi veri scrittori del sito mi stimola tantissimo. Mi spinge a mettermi in discussione, a cercare modi nuovi e più sinceri per raccontare.
      Quindi grazie ancora, di cuore.

  3. “Alle otto in punto scatta il primo ticchettio. Non so se sia il cuore, il cronometro, o la condanna. Tanto uno batte, l’altro conta, e il terzo aspetta solo il momento giusto.”
    Bellissimo attacco. Cattura l’attenzione!