Il foglietto rosa

Bisognava pensare al pranzo. Marco aveva voglia di fare tutt’altro, o forse niente. Era in piedi, ancora in mutande e t-shirt, la sua tenuta notturna, e fissava con tristezza il frigo spalancato la cui luce biancastra illuminava impietosa la confezione di latte, scaduto, due yogurt alla frutta e un pezzo di formaggio che aveva colore e consistenza del marmo di Carrara. Si guardò allo specchio e diede una rassettata con un po’ d’acqua alla massa di capelli tra il nero e il grigio strisciante e uscì di malavoglia da casa.

Dieci minuti di macchina ed era al già al parcheggio del supermercato come al solito imbottito di auto. Aprì il cassetto sotto il cruscotto, rovistò alla cieca un bel po’ e finalmente trovò la fatidica monetina da un euro necessaria a sganciare il carrello dalla sua rotaia. L’euro lo fece un attimo trasalire, lo faceva sempre, era quello che Ester aveva messo lì già quattro anni fa per quell’esigenza «Così ce l’abbiamo sempre a portata di mano» aveva detto.

Marco estrasse il carrello dalla rotaia e subito notò con disappunto le solite rimanenze dei clienti precedenti, sacchetti frutta e verdura non utilizzati, guanti monouso e vari pezzi di carta svolazzanti. Lo colpì un foglietto, forse perché era rosa e spiccava in quel grigiume. Lo prese in mano e, prima distrattamente, poi con un certo interesse iniziò ad esaminarlo. Mamma mia quanta roba! Si trattava di una lista estremamente ordinata, redatta con grafia tipicamente femminile e molto affollata. Partiva con il pane, molto pane, una quantità non da famiglia. Lo stesso per la carne. Anche qui quantità rilevanti e di svariati generi e tipologie. Poi la verdura, lo stesso. E infine i generi accessori di cucina, quali sale, olio, e altri condimenti. Il foglietto rosa sembrò prendere vita tra le mani di Marco, prese il controllo della sua mente e lo portò indietro con il tempo. È la tipica spesa per una festa, pensò, per una bella grigliata tra amici, a casa di qualcuno che ha un bel giardino, o ancora meglio in un prato tra le montagne. Quante ne aveva vissute lui di quelle giornate, quanti sorrisi, musica, emozioni. La voglia di stare assieme, di passare intere giornate, di piacersi, di sentire quei brividi verso quegli occhi, quei capelli, quella smorfietta sbarazzina, quella maglietta troppo tesa quando si giocava a pallavolo. E poi tutti seduti, vicini, i più bravi tirano fuori le chitarre, qualche volta anche una fisarmonica e il “mare diventa nero” e ci si convince che “bomba o non bomba, arriveremo a Roma”. E si andava avanti così fino a tardi, cercando magari di rubare una carezza anche involontaria a quel sorriso che ti aveva stregato per tutta la giornata. Questa era la storia che quel foglietto rosa raccontava a Marco, una storia di tempi e ricordi mai sopiti. Ma poi alzò gli occhi, si vide riflesso nella vetrata del supermercato e si sentì un groppo salire e stringere la gola. Tornò nel presente, nel qui ed ora e brutalmente fu costretto a guardarlo in faccia. No, quei ricordi erano destinati a sparire piano piano nell’oblio, la sua vita era un’altra e la doveva in qualche modo accettare. Non più allegria, non più amici, basta chitarre e canzoni, niente brividi di desiderio. Quel posto malsano in cui era finito e da cui non riusciva ad uscire. Ester andandosene gliel’aveva detto «Quando sarai cresciuto chiamami» e lui aveva chinato la testa e accettato la sconfitta. Il foglietto rosa gli parlava di cose che lui conosceva bene, ma che non gli appartenevano più. Fu tentato di appallottolarlo e gettarlo via ma invece lo piegò in quattro e se lo mise in tasca. Il potere del ricordo si era fatto sentire molto forte e aveva accentuato ancora di più, se possibile, il potere di quel grande lupo nero che gli aveva appoggiato una zampa sulla spalla e non la toglieva più.

Marco non riuscì a trovare la forza di fare la spesa, mise il carrello al suo posto, salì in macchina e tornò a casa.

Passò una giornata terribile trascinandosi dal divano al letto e viceversa, non mangiò nulla, tentò di sbriciolare un pezzetto del formaggio/marmo ma senza successo.

La mattina successiva si recò quindi ancora al supermercato. Questa volta nel suo carrello non c’era nulla, perfettamente pulito. Fece una rapida spesa e, perso nel suo mondo si avvicinò alla cassa. Due persone avanti a lui notò una ragazza, bionda, ricciolina, sui trenta, che spingeva un carrello traboccante di ogni ben di Dio e che tra le mani aveva un fogliettino rosa molto simile a quello che lui aveva nella tasca dei jeans. Sentì la cassiera che le diceva con tono confidenziale «Ciao Elisa, buon lavoro. Ci vediamo domani!»

Marco rimase attonito, come domani? Ogni giorno tutte quelle provviste? Possibile?

Pagò velocemente la sua spesa e uscì cercando con lo sguardo la ragazza, la vide che stava scaricando il carrello e sistemando i sacchetti nel capiente baule di una station-wagon. Allora si fece coraggio, le si avvicinò e disse «Elisa, ho sentito la cassiera chiamarti così, non voglio essere invadente» e le raccontò di aver trovato la sua lista il giorno precedente e di esserne rimasto colpito concludendo con «ma tutti i giorni questa spesa? Ma quanti siete? Quante feste fate? Beati voi».

Elisa si fermò con un sacchetto in mano che rimase a mezz’aria, lo fissò intensamente e non riuscì a trattenere un sorriso che a Marco fece tremare le gambe e, sprizzando gioia dai bellissimi occhi azzurri, gli disse «Carissimo, nessuna festa, io faccio la volontaria alla Comunità di Sant’Egidio e queste sono le provviste per la mensa in cui ogni giorno vengono a mangiare decine di poveri e indigenti».

Marco rimase senza parole, lei gli sorrise ancora, salì in macchina e se ne andò. Lui salì sulla sua macchina e, prima di partire, spostò lo specchietto retrovisore per guardarsi negli occhi e decise che la sua vita non era finita ma, anzi, iniziava quel giorno.             

Avete messo Mi Piace1 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. Concettualmente molto bello, scritto benino (non benissimo solo per quel parcheggio”imbottito”: un parcheggio può essere, pieno, zeppo, stracolmo ma mai imbottito, non è un panino). Sono pedante, me lo dico da solo, scusami. Però le intuizioni che tanto ho gradito mi fanno dimenticare quel termine che non ho digerito: l’euro lasciato da Ester per il carrello e le citazioni di Battisti e Venditti senza farne i nomi. Passi con un solo un accenno al “potere di quel grande lupo nero che gli aveva appoggiato una zampa sulla spalla” e a “quel posto malsano in cui era finito” senza spiegare e, lo intuiamo, che sta attraversando un triste momento perché abbandonato da Ester e che la mezza età e le nostalgie non aiutano però, stava a te raccontarcelo. Non è una critica, Pierpaolo, perché so benissimo che mille parole non bastano a farci stare tutto ciò che volevi esprimere, ma, piuttosto che mutilare un racconto che merita (e questo meritava maggiore attenzione) diamogli la giusta collocazione dividendolo in due o più episodi. La mia impressione è che tu abbia tagliato e questo non fa bene a te, al racconto e a chi lo legge. Sempre con affetto. 😉

    1. Caro Giuseppe, ben vengano le critiche, anzi… Hai l’occhio fino, il racconto originale aveva 300 parole in più e sì, ho tagliato. Ho cercato di usare criterio ma chi se ne intende lo capisce subito e mi scuso di aver fatto un torto ai lettori. Tutta esperienza comunque, grazie a te e a tutti quelli che dedicano il loro tempo per leggermi. Buona serata!