IL GIOCO DELLA VENDETTA

Serie: IL GIOCO DELLA VENDETTA


Rapimento e vendetta, ma molto altro.

Era buio dentro il capanno di lamiera fredda, la notte era scesa presto. O forse no. Nulla in quella baracca poteva aiutare a comprendere il trascorrere del tempo.

Solo un piccolo abbaino schermato lasciava filtrare una sottilissima lama di luce.

Il ragazzo era rinchiuso da tempo, tanto da non ricordare quando e come fosse accaduto. Dentro a quello spazio non c’era nulla, tranne una branda con due coperte e una piccola lampadina attaccata alla sommità del soffitto, sempre accesa. Aveva cercato ogni modo per poter scappare, ma pareva essere richiuso in una cassaforte.

In quell’istante lui entrò. Sempre con i soliti abiti, una felpa nera con cappuccio ed una maschera davanti al viso, a forma di becco di uccello, lunga e appuntita. Cuoio e metallo.

Non parlava mai, gli unici suoni che gli aveva sentito emettere, erano stati ghigni o risate folli. Almeno fino a quel momento.

«È arrivato il tempo di giocare» disse con voce cupa, senza particolari inflessioni.

«Cosa vuoi da me? Io non voglio giocare, voglio… chi sei…ti prego lasciami libero.»

Gli si avvicinò e senza pronunciare altra parola, afferrò il ragazzo per la gola e senza il minimo sforzo, gli legò piedi e mani con una piccola catena in modo che non potesse muoversi.

Posizionò una telecamera ed iniziò la registrazione.

Avevo deciso di spostarmi a Marina di Ravenna per trascorrere qualche giorno al mare, lunghe camminate e qualche bagno.

Era la località balneare di Ravenna, frequentata in passato, dalla buona Società e dagli amanti della vela. Il porto turistico era stato un vanto per il paese, uno dei meglio attrezzati e protetti dell’alto Adriatico. Anche la spiaggia, ampia e splendida, aveva stabilimenti efficienti e propositivi, anche come offerta culinaria. Purtroppo, come molte cose e luoghi, anche Marina era stata contagiata da una “movida” senza senso e senza controlli, dove le notti si trasformavano in gare etiliche ed estremismi di stupidità. Ma forse, è solo il degrado di molte persone che trasferiscono le loro mediocri vite sulle cose che toccano. Marina di Ravenna, comunque sia, continuava ad essere un luogo piacevole da frequentare e da vivere.

Antonella, che nel frattempo aveva deciso di trasferirsi momentaneamente da me, era tornata a Perugia per prendere tutto ciò che le occorreva e per salutare la sorella. Le cose fra noi andavano bene e stare insieme, viverla ogni giorno, rappresentava un arricchimento per la mia vita.

Anche la malattia pareva darmi tregua, ma ero consapevole che poteva cambiare tutto, in un attimo. Per il momento godevo di quella serenità, che poche volte avevo avuto.

Le mie giornate scivolavano tranquille, con Leo, Cocker Spaniel, sempre più pigro e avverso ad ogni moto che non prevedesse un riconoscimento in cibo.

Si era entrati nell’estate, ma il tempo si manteneva grigio e non particolarmente caldo e afoso.

Oramai, era trascorso quasi un mese dal ritrovamento dello zaino con la foto del ragazzo e nessuno aveva più telefonato alla stazione dei Carabinieri di Bagno di Romagna. Il Comandante, Maresciallo Francesco Brighi, aveva avanzato l’idea che fosse stato uno scherzo, se pur di pessimo gusto, ma sempre comunque una burla, anche se, forse nemmeno lui ci credeva veramente. In ogni caso le indagini andavano avanti. Io avevo maturato l’idea che ci dovessimo attendere qualcosa di brutto e presto. Non era una convinzione basata su fatti, ma su una spiacevole sensazione. E poi c’erano domande che richiedevano risposte.

Perché era stato indicato il mio nome?

Perché quel messaggio strano?

“Tre in coppia,

I semi.

Sei.

Sei o non sei uno di noi sette?

Attendo o miei amici.”

Perché il riferimento al Gioco dell’Oca?

“Bravi siete giunti alla prima casella del gioco dell’oca. Il premio sarà la vita. Se fallirete, le morti.

A presto…”

Voleva trascinarci in un mondo oscuro, dove in gioco c’erano le vite di alcune persone, una di queste, quel ragazzo del quale avevamo solo il nome, Carlo ed una fotografia. Nulla, oltre a questo.

Il fatto che io avessi pensato troppo spesso, più di quanto avrei voluto, a quanto accaduto quel giorno, significava che quell’uomo pazzo mi aveva già contaminato, costretto a strisciare dentro il suo mondo e dover inserire mani e mente, all’interno di un antro buio e sudicio di malvagità

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