Il giorno in cui mia madre doveva morire
È arrivato così, come un giorno qualunque, ridotto ad una pausa strappata all’ufficio, di lunedì mattina, il giorno più pieno. Mia sorella mi chiama: devo entrare alle undici, vieni a darmi il cambio, fatti accompagnare, qualcuno può passare prenderti? No, arrivo.
In certi momenti è bene essere soli e me lo sento che è uno di questi, perché per qualche ragione l’ho sempre saputo che sarebbe toccato a me: siamo tre figli, tutti presenti, ma tanto lo so che deve succedere a me, sono io quella dei grandi momenti, l’egocentrica, oppure per colpa della legge di Murphy, ma tant’è.
Parcheggio, mi accorgerò dopo che ho lasciato la macchina aperta e le chiavi sul cruscotto, biscotto pancotto, che bel nome che non si addice ad un’auto, comunque sono arrivata, cerco, salgo, aspetto, non poco, la dottoressa mi chiama, entro e me lo dice.
Eccola lì la data di scadenza, sento quasi un sollievo, allora è così che ci si sente a saperla, la più temuta di tutte. C’è sulla confezione dal giorno in cui si nasce e col passare degli anni si fa solo più vicina, quasi amica, una compagna alla quale si pensa con costanza quotidiana. La mia mamma ha 83 anni, mica pochi, ci mancherebbe non essere preparati, e poi la dottoressa ha un modo così gentile di dirmelo, che purtroppo gli esiti sono i peggiori previsti, che quasi mi commuove, sono in difficoltà io per lei, mi fingo assorta nell’ascolto e penso: eppure dovrà dirlo quante volte? 3, 4, 20 in un giorno, in una settimana? E quanti pazienti saranno più giovani della mia mamma? Tutti? E allora con gli altri come fa? E come si fa ad essere cosi gentili e partecipi e lenitivi, come un balsamo, nel recitare ogni volta un copione tanto impietoso? Io non me lo spiego. O forse siamo io e la mia faccia che le incutiamo una particolare compassione? Io coi miei 50 anni che credevo ben portati ma ora sento tatuati in fronte, io con la mia aria ragionevole da sì capisco, immaginavamo, mi dica pure tutto, io che, non so se posso chiederlo, ma la prognosi quale sarebbe? E infatti mi sa che non potevo perché non mi risponde, saggia lei, non si danno previsioni, non mi piace parlare di numeri, la medicina non è una scienza esatta come si pensa, sa, e su ogni corpo agisce in maniera diversa, ma intanto accenna a dei mesi, la parola anni o anche solo anno, uno solo, non l’ho mica sentita, abile lei e scaltra, avvezza direi, capisco che mi sta rispondendo, ma così, senza soffermarsi, lo fa con un tatto e io neanche se facessi un corso di duemila anni imparerei a sorvolare così… E poi succede qualcosa: le rubo una Tic Tac. Perché? Lei era lì che se le metteva in bocca, una via l’altra, ma a me non ne aveva offerte, vedo da sotto i miei occhi sfocato il mio braccio che si allunga verso il pacchetto a levarglielo di mano, a quel punto me ne dà una, senza scusarsi di non averlo fatto prima, siamo diventate due quasi amiche? C’è confidenza? Perché cribbio se stiamo condividendo qualcosa, gli estranei sono altri, mi dico, oppure vuoi vedere che sono proprio questi che non ci conoscono ma poi ci frequentano nelle situazioni più intime? Ai quali affidiamo la nostra vita, la nostra morte, i nostri segreti? I medici, i becchini, i preti. Quelli che quando la vita inciampa sanno cosa fare, cosa va fatto e lo fanno, al posto nostro che invece sappiamo solo stare sulle rampe di lancio. In pista. Sui binari. Sì, insomma, sappiamo solo stare dove si va, ma non dove ci si ferma. Dio che ammirazione che ho per tutti coloro che stanno dall’altra parte e non perché sono eroi — chiaro che lo sono — ma perché sono così tanto bravi nel farlo, questo che chiamano lavoro, che neanche vedono che è una dote soprannaturale. Vivono lì, come formiche nel sottosuolo incessantemente occupati a riparare e metter via, riordinare, incollare, ricucire corpi e anime, mentre noi in superficie ci facciam belli di tutto il nostro correre avanti e indietro, affannati a far passare le ore, prendendoci pure sul serio. E quindi penso a cosa ho io da offrirle, ora come ricambio, magari potrei invitarla a cena o al cinema. Dio, come mi fa sentire inadeguata questa attenzione che mi presta, a me, un’estranea, appunto. E intanto sento che il mio e nostro tempo sta finendo, anzi è proprio finito, devo uscire, dovrei gentilmente levarmi di torno, lasciare il posto ad un altro che come me si siederà su questa sedia, annusandosi intorno come una preda stanata, con l’aria smarrita, gli occhi a cercare un contatto o forse una via di fuga, le mani che non sanno cosa toccare, il corpo che vorrebbe solo sparire. Però io voglio allungarlo questo tempo sospeso, che mi permette ancora di divagare prima che il peso mi schiacci. Se esco di qua poi devo cominciare a pensarci. Tienimi ancora tienimi ancora… va bene, grazie. Ci vediamo martedì, sì certo non domani, quello dopo, sì mi è tutto chiaro e no, non ho domande. Cioè meglio che me le tengo, strette strette, molto meglio si fidi.
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“Tienimi ancora tienimi ancora… va bene”
Dopo l’apertura in cui c’è azione, sei scivolata lentamente e senza mai frenare in un lungo flusso di coscienza che, a mio avviso, regge molto bene la propria struttura. Molte considerazioni interessanti e spesso toccanti che si susseguono e non si ingarbugliano. Una narrazione solida, pensieri e domande cui si dà una risposta. Nella storia, inoltre, ci possiamo immedesimare tutti. Davvero brava.
Intimo, sospeso, lucido, commosso, potente, autentico. Bello.