Il lavoro rubato 

Serie: Tutto in una sera


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: L’incontro con una ragazza, frutto di uno scambio di persona, ha segnato un momento particolare nella escursione a Padova.

I venditori sono tutti stranieri, pakistani, indiani, tunisini e qualche senegalese. Un tempo i magliari, venditori ambulanti che si spostavano di città in città seguendo i giorni di mercato, erano in massima parte campani, oggi quei venditori di allora son proprietari di grandi centri vendita monomarca, fatturano milioni di euro vendendo gli stessi prodotti delle bancarelle a prezzo maggiorato perché nelle loro grandi sale c’è l’aria condizionata e qualche manifesto con ragazze ammiccanti e fasulle.

Prima o poi anche gli attuali venditori ambulanti miglioreranno il loro tenore di vita e lasceranno le bancarelle agli ultimi arrivati, a quegli immigrati arrivati coi barconi con la speranza di non terminare il loro viaggio di riscatto in fondo al mare.

Superato il canale colmo d’acqua e di gigantesche carpe che cinge la piazza ovale, si arriva ai prati erbosi del parco. Sotto gli alberi tante persone distese sull’erba, ammucchiate sotto l’ombra delle chiome come mosche su uno schizzo miele. Al sole il caldo è veramente torrido.

Sulle panche di pietra intorno alla fontana centrale, un po’ in ombra e un po’ al sole, ci sono gli ambulanti, gli scaricatori del mercato all’ingrosso, i manovali, i raccoglitori di pomodori, i lavapiatti, gli addetti alla nettezza urbana, i contadini e i pastori di domani. Oggi no, oggi sono solo disperati appena giunti e in attesa di essere promossi al primo gradino della scala sociale della nostra civilissima nazione, quello di moderno schiavo.

No, scusa, mi sono sbagliato, volevo dire in attesa di rubarci lavoro. Sì, perché ho scoperto che tanti italiani ci son rimasti male quando hanno scoperto di non riuscire più a trovare lavoro come spalatori di merda, oppure come raccoglitori di pomodori. Dieci ore con la schiena curva sotto il sole per 15 euro al giorno, da cui naturalmente detrarre 4 euro giornaliere per l’affitto di una branda sbilenca in una baracca di teli di nailon, cartone e qualche asse di legno raccolta nel cantieri abbandonati con il rischio di essere impallinati dal salvatore della patria di turno. E poi c’è la quota per chi ti ha trovato il lavoro, la quota per il camioncino con i finestrini ciechi che ti porta nei campi. Sì, è veramente ingiusto che agli italiani, tutto casa, chiesa e famiglia, abbiano impunemente sottratto queste speranze di vita.

Tutti i lavori sono dignitosi, necessari e utili al nostro vivere in comunità. Ciò che rende disdicevoli alcune di queste attività è il clima di sfruttamento e degrado in cui vengono calate. Prestare continuamente la propria opera con la schiena curva dal peso delle fatiche, dal peso delle umiliazioni e dal peso della paura di perdere anche quella miseria non è lavoro, è schiavitù.

E pensare che fino a pochi anni fa eravamo noi i disperati che venivano emarginati e perfino tacciati di essere a un livello quasi subumano, eravamo noi a elemosinare un lavoro e una speranza di riscatto in terre non nostre, con usi e abitudini che non comprendevamo, che ci erano ostili. Quanta memoria corta e quanta pochezza nell’egoismo e stupido rancore imperanti. È oggi, vedendo gli ultimi arrivati su barconi, gommoni e barchini come uno stuolo di disperati, alcuni in fuga dalla guerra, altri dall’oppressione o dalla miseria e altri ancora più semplicemente in cerca di una vita migliore, quanto cieco e immemore razzismo.

Di primo akito si potrebbe pensare che sia rivolto verso coloro così diversi da noi, così strani e cosa c’è più di diverso se non uno con la pelle nera che tra l’altro ci ricorda che il nero è il colore dell’inferno e il bianco, cioè il nostro, è quello della purezza. Idiozie.

Non credo sia quello il motivo dell’astio nei loro confronti, se fosse il colore della pelle a far scaturire il razzismo non esisterebbero le discriminazioni verso coloro che pur essendo gli emarginati, i poveri, i deboli e tutti quelli che la miseria di una vita di stenti l’hanno stampata in faccia, hanno la carnagione chiara.

Il razzismo non ha il colore della pelle, ha solo il colore dei soldi, del proprio particulare e della paura. Ciò che fa paura, e il razzismo è fondamentalmente paura, è la miseria rappresentata da tutti quei poveri disgraziati che invece proprio dalla miseria cercano di fuggire. È la paura di venir risucchiati dentro una vita di fatiche, dentro le difficoltà e dentro l’incertezza del domani che magari si riteneva d’aver lasciato per sempre.

Questa paura è trasversale, colpisce tanto l’agiato abbarbicato nei suoi averi quanto il povero che pur non avendo nulla da perdere ha paura di diventare ancora più disgraziato di quello che è. Colpisce l’istruito che fin troppo spesso è focalizzato sul proprio interesse e colpisce l’ignorante che quasi sempre si lascia abbindolare da chi parla alla sua pancia. È la paura del diverso, di ciò che una volta si è stati oppure di ciò che non si è stati e quindi non si conosce, è la paura dell’ignoto, è la paura di un campo che non si è mai attraversato che spinge a innalzare muri e a chiudersi nei propri recinti.

Credo che il razzismo vada affrontato sopratutto smontando e smorzando le sue paure, agire per blocchi contrapposti accentua ed esaspera i problemi, puntare invece sul riconoscimento del valore della diversità penso sia un buon passo nella direzione giusta. Conoscere la vita degli altri, possibilmente la loro quotidiana umanità può servire a vederli un po’ meno diversi, e chissà, a forza di parlarne e di parlarsi che non si riesca finalmente a riconoscerci tutti come simili.

La voce di Teresa mi riporta alla realtà, «Ancora con la testa per aria, ti sto chiamando e neppure mi senti».

Come sempre ha ragione, forse dovrei fare come lei, sorvolare su tutto e badare con più attenzione ai miei interessi. Sapessi almeno quali sono.

Per l’arrivo del nostro bus c’è d’attendere almeno tre quarti d’ora e per non farci disseccare dal sole ci rifugiamo, con la scusa di visitarla, nella vicina chiesa di santa Giustina.

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