Il mio naufragio

Sto scrivendo la storia del mio naufragio. Sono una sequoia dal bicipite molliccio. Lascio passare i pensieri, secondo dopo secondo. Gli dèi primordiali aspettano che io muoia. Scrivere non serve a niente. Come una bava di lumaca. Dare la biacca su un muro. Cerco l’ombra, l’Oscuro. Produco uno sfregio. Sono un writer metropolitano. Graffiti. Sono un pellegrino sulla via per Ixtlàn. Capisco sempre meno della vita. Nubifragio. Naufragio. Nella mia testa, un ninna nanna dadaista. Metto il caffè sulla moka.

Conosco l’angoscia. L’essenza del clown, del fool. Ho un monastero nel mio cuore. Sono stato partorito da secoli di terrore. Sulla soglia dell’annientamento sono rinato. Vivo fotografando la meraviglia della vita. Sto morendo in questo preciso momento. Sono ingenuo e scafato. Un fallito totale. Un animale. Un trickster.

Reduce della storia. Non ho più boria. Mi piace scrivere perché, ripeto, non serve a niente. Scarabeo stercorario, salto di palo in frasca. Mi nutro alla vena fresca che sgorga dal lupanare del mio cervello. Vivo in un casino di caccia. In un bordello. La mia torre d’avorio è aperta a tutti. Sono un malato in via di guarigione. Ho deposto la rabbia. Mi ha abbandonato la foia. Provo gioia. Sono un deficiente. Ho una voglia fetente di scivolare nella vita, di solcarla, fin dentro alla morte. Mi son fatto ogni sorta di illusioni. Reduce. Sopravvissuto. Ero un Puer. Sono un Senex. Ho le vene piene di ogni farmaco e psicofarmaco. Sono un intruglio di molecole medicinali. Ti regalo parole, semi di girasole, bricolage di emozioni, lucidi deliri, freguglie di gioia e di supplizio.

Nei ritagli di tempo mi dissanguo. Percorro le strade atroci dell’impero in rovina. Della mia anima in decadenza, vintage, superata. Contemplo il mio hangar archeologico, il mio liquame proveniente da frullati su frullati di situazioni e complessità. È stata una corsa senza fiato. Le mani, le cosce, i falsi “ti amo”, le criminali manipolazioni. Tenevo una Matiz azzurra, e avevo distrutto in vent’anni quattro macchine. In due mesi, infrazioni per ventiquattro punti patente. Avevo guidato con la depressione maggiore. Ho venduto la macchina. Sono un clown maturo che frequenta i taxi, i pullman, i treni. Ma amo la vita così. Questo delizioso sentore di essere fuori da tutti i grandi giochi. Fuori dalle illusioni. Mattia Pascal.

Percorro il deserto quotidiano, nutrito dal cielo e dal sogno, stupito di esistere. Le cose più concrete di cui ha senso parlare sono l’essere, il non essere, il silenzio, l’essere atei di fronte al Dio vivente. Da atei parlare con Dio.

Sono stupide queste mattine fatte da dieci caffè. Avere solo del riso e degli spaghetti in casa e vivere di pasta bianca. Con un po’ di olio e sale. Fanculo alla sanità della vita, all’armonia, all’accordo con l’energia universale. Fanculo alla socialità. Fanculo alla fanculaggine del senso comune della vita, fatto di illusioni ed entusiasmi per gli ormoni per i viaggi per il lavoro per il bel vestito per lo shopping per i bambini per gli animali. Fanculo alla vita che mi avvinghia e mi si stringe al collo: il buon senso comune, la normalità, le gocciole.

L’essere soffre. Dio si dà solo come clochard inerme, impotente, sanguinante. Dio è vittima di stupro e di tratta, gli asportano e gli vendono un rene per pochi dollari, Dio sniffa colla da calzolaio e solventi e raccoglie oggetti nelle immense discariche. Dio è tetraparaplegico, ha la Sla e sogna l’eutanasia, Dio abortisce, ed è un aborto. La croce percorre la storia. Dio ha l’Alzheimer, ha l’ictus e si caga addosso. La croce è questo preciso momento. È lo scandalo dell’impossibilità del kitsch.

Un colossale mare di merda, orrore o grigiore fra noi e il paradisiaco atollo del Pacifico.

Questa, signori, è pura innocenza, puro amore diluito nei cessi e negli orinatoi.

Oso respirare. Oso respirare perché prego bestemmiando. E la mia stanchezza solca i chilometri e i campi, copula con i letti.

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