Il mormorío del mare
Qualche tempo fa, in un pomeriggio piovoso, un celebre cantastorie, narratore e poeta, se ne tornava a casa. La sera prima era andato in scena con l’ultimo suo pezzo teatrale, riscuotendo applausi dagli spettatori, commenti positivi dai critici, anche da quelli più difficili da accontentare, e rilevante risonanza mediatica.
Egli, dunque, viaggiava contento e soddisfatto verso casa, quando una nuvola di nebbia, almeno pareva tale, lo costrinse a rallentare la marcia e a fermarsi. Aspettò un poco, sperando che la nebbia si diradasse. In effetti, cosi avvenne. Ma con suo grande stupore, non vi era più traccia della strada asfaltata che aveva percorso, né traccia delle ruote del suo veicolo sul sentiero di terra battuta, ove ora si trovava. Alle sue spalle, una freccia di legno indicava un viottolo, largo appena le spalle di una persona, nemmeno tanto robusta. Che fare? Avanti, le radici di una quercia alta quanto il cielo, o quest’ultimo in quel punto basso quanto la quercia, fuoriuscivano dal terreno, impedendo un’ulteriore avanzata del veicolo. Il viottolo finiva in faccia alla porta di una casupola di montagna. La finestra aveva delle tendine col fondo bianco su cui erano ricamate delle farfalle azzurre. Sul davanzale, una rete da pescatore, una pianta rossa, una manciata sparsa di conchiglie e un paio di azzurre scarpette ballerine.
L’uomo continuò a guardarsi intorno per capire dove fosse, intanto che cominciava a piovere più forte. «Forse, dentro ci sarà qualcuno a cui chiedere informazioni e, visto il temporale in arrivo, magari anche un po’ di riparo» pensò, avvicinandosi all’uscio della casupola.
«Che fai, non entri?» gli chiese una bella voce, mentre lui cercava un campanello da suonare.
La porta era socchiusa ed egli la spinse quel poco che bastò per sporgersi a guardare dove fosse quella voce. Per vedere meglio, avanzò di qualche passo dentro quella stanza dalle pareti anch’esse azzurre, permettendo alla porta di chiudersi alle sue spalle. Nella stanza si spargeva un profumo che rassicurava l’animo inquieto.
«Sono qui, non mi vedi?» quella bella voce guidò il suo sguardo verso l’angolo della stanza, dove una bella signora si dondolava su una sedia di vimini. Aveva i capelli che le sfioravano le spalle, avvolte in uno scialle azzurro, e le labbra come due petali di un morbido fiore rosso. La donna, con un grazioso cenno della mano, lo invitò a sedersi sulla sedia che le era accanto.
«Di certo, ti starai chiedendo dove sei e perché sei qui» gli chiese, mentre lui la guardava in silenzio. «Vedi da te che sei in un luogo azzurro. Sai, il mare è sempre azzurro. E’ il vento, la pioggia, il sole, il buio e qualche altro abito che la natura gli mette addosso a farlo di diverso colore. La cosa, invece, importante – proseguì, dopo un breve sospiro- è che tu sei qui!»
«Io sono qui, perché?» domandò, il cantastorie, osservando che ella indossava una veste azzurra, ora che un raggio di sole stemperava la penombra della stanza dove era seduta. La donna, aggiustandosi lo scialle che le scivolava via dalle spalle, rispose:
«Visto che me lo chiedi, a maggior ragione, ti dirò quello che ho da chiederti».
«Da chiedere a me?» «Certo, proprio a te! E sai perché?» «Vorrei saperlo». «Perché la tua fama di cantastorie è così grande che quello che canti e scrivi viene ascoltato e letto dalla maggior parte della gente.. Perché ciò che tu racconti non è l’amore che fa rima con cuore; non è la tenerezza che traspare dal dipinto di una mamma che tiene in grembo un figlio con dolcezza; non è la tristezza che si legge negli occhi di un bambino, quando si rompe il suo giocattolo preferito. No, non è questo, ma altro. Tu racconti una realtà che si ascolta e si legge come vera, perché chi la sente l’ha subita, o percepisce che potrebbe subirla!»
«Io la ringrazio, per queste parole, per quello che dice delle storie che racconto, ma cosa vuole da me? Mi dica!» implorò quasi l’uomo, modulando la voce tra l’impazienza trattenuta e l’evidenza della curiosità di sapere. «Io ti chiedo di raccontare il mormorio del mare» rispose la bella signora, aggiustandosi le pieghe della veste che le scendeva sulle gambe. «Il mormorio del mare?…E cosa dovrei raccontare, lo sciacquio delle onde verso la riva? Oppure, il loro rimbalzare sugli scogli e il successivo fischio del loro spruzzare nell’aria?» pronunciò tutto d’un fiato il cantastorie, sistemandosi la sedia che l’agitazione, per quanto contenuta, gli aveva spostato di sotto.
La donna gli sorrise, mostrando le sottili rughe che baciavano i lati della sua bocca. Anche l’altro sorrise, mentre calava gli occhi su quei piedi scalzi. Aveva le caviglie sottili e la veste, che le copriva le gambe, la faceva pensare tanto bella che quasi veniva desiderio di amarla. Ma distolse subito il pensiero da quello sguardo, perché la signora aveva ripreso a parlare:
«Come ben saprai, il mare lambisce tutte le terre che abitano il pianeta. Il mare trasporta in ogni dove ciò che parte da un solo luogo. Io parlo di quello che viaggia nelle sue gocce di acqua che non si vede, ma che si può sentire se lo si ascolta: il mormorio del mare, appunto. Ed è un mormorio di sofferenza! La gioia non ha bisogno di essere raccontata, perché non è da cambiare, è di per sé bella e benevolmente contagiosa. Non così la sofferenza! Orbene, da ogni centimetro della terra, dove c’è povertà, iniquità, guerra, prigionia di corpi e di menti e qualsiasi altro dolore, viene lanciato un urlo che naviga il mare. E lo naviga, miglia dopo miglia, con la speranza di raggiungere orecchie che lo sappiano ascoltare. Pensa, se l’eco della sofferenza fosse percepito e diventasse continuo, perpetuo! Di certo, l’umanità sarebbe costretta ad ascoltarla e, pur di farla tacere, adoperarsi per sanarle le ferite. Ecco, io vorrei che tu raccontassi, fino a farti sentire addirittura dai sordi, il mormorio del mare, di questo mare!…»
La stanza si riempì del suono di quella parola. “Mare mare”, rimbalzava dalle pareti, dal pavimento, dal soffitto, ma era un sentire morbido, leggero, quasi piacevole da ascoltare. All’improvviso, seguì il suo mormorio. Esso si diffondeva sottovoce, perché il dolore anche quando è muto si sente lo stesso. Non era un lamento, piuttosto un canto di speranza; un canto di sirene intrappolate che chiedevano di essere liberate. Un canto, però, che ad ascoltarlo metteva addosso fastidio, persino disagio.
Quando il mormorio tacque, la signora chiese: «Senti la pioggia scendere?» «Sì, la sento» rispose, guardando fuori la finestra dalle tendine bianche ricamate d’azzurro. «Se ti affacciassi» continuò la donna con voce più profonda «sentiresti il profumo della terra che la pioggia smuove, sveglia e spande nell’aria. Ma se tu fossi in altro luogo, il quale esiste veramente da un’altra parte, sentiresti la puzza di una fogna a cielo aperto che scorre come un rigagnolo tra le case di certa povera gente!» Adesso, si toccò le mani, se le portò sul viso. Aveva le dita sottili, non fragili ma delicate. «Io non voglio che tu cambi il mondo ma che racconti il mormorio del mare, di quel mare!, affinché il mondo lo zittisca» concluse, alzandosi dal dondolio della sedia. Per la prima volta, il suo viso era cupo, con una espressione che le rigava le guance e che le toglieva finanche un po’ di bellezza. Infine si mosse, in una parte della stanza, dove il buio copriva la luce. Il cantastorie, narratore e poeta, rimase con gli occhi sul dondolio della sedia di vimini e si addormentò, mentre fuori montava la tempesta.
Quando si svegliò, l’asfalto era asciutto, la visuale era nitida, la macchina correva veloce e la sua casa era un po’ più vicina. Durante i lunghi chilometri percorsi, si era fermato in un bardi periferia, per consumare un caffè. Ora andava spedito, forse anche troppo. Ma ad un tratto, si fermò a lato della strada per scrivere su un’applicazione del cellulare, come faceva quando gli veniva qualche idea che gli sembrava buona per uno spettacolo teatrale:
Durante la tempesta non si mosse foglia, non perché non ci fosse vento. Questo, una volta scatenata quella, si rintanò in seno all’albero. Allora, la quiete, fino ad allora inquieta, si mosse quieta, per placare la tempesta, che senza vento, era sì cheta che pareva asciutta e, così, leggera. Intanto, il vento, si ritirava dalla quercia, muovendo di sé, neppure un refolo di aria. Si ritirava, che pure l’onda s’addormentava, scivolando a riva per inerzia. Finalmente, le stelle e sotto di esse il buio che tutto avvolse e tutto tacque…
Tranne il mormorio del mare.
Avete messo Mi Piace1 apprezzamentoPubblicato in Narrativa
Una riflessione devastante, perché tocca tutti noi. Occupati nei nostri guai quotidiani chiudiamo gli occhi alla sofferenza del genere umano, preferendo dolci pensieri capaci di farci sopravvivere ma forse non vivere. Ma il mare è lì, a due passi da noi, che desidera essere ascoltato
Ciao, Micol.
Buona giornata