
Il nucleo di Ganimede
A chi me lo fa notare di solito rispondo che ho l’orecchio timido. È per sdrammatizzare, bisogna saperci scherzare sulle cose. In realtà, il fatto è che quando ero bambino mio padre mi dava un sacco di botte, e una volta glie n’è scappata una talmente forte che mi ha lasciato mezzo sordo. Mezzo nel senso che su due orecchie me ne ha fatta fuori una. Che volete, alla fine è tutta una questione di come si guarda il bicchiere.
Quando qualche tempo dopo l’accaduto se n’è andato per la sua strada, quella che finisce tre metri sotto terra per intenderci, l’udito non è l’unica cosa che si è portato via.
Tanto per farvi un esempio, del primo tentativo che ho fatto qualche anno più tardi di prendere un aereo, la sola cosa che ricordo è la sensazione che mi stesse esplodendo il timpano durante la fase di atterraggio. Mentre tutti i passeggeri a bordo applaudivano eccitati come se stessero partecipando all’adunata di piazza a reti unificate di un qualche dittatore sudamericano, per il fatto di non essersi sfracellati a terra che vai a sapere te quanto ha dormito il pilota la sera prima, io li guardavo con le lacrime che mi colavano fuori dalle orbite per il dolore, desiderando soltanto di potermi tramutare in un inconsapevole imbecille tanto quanto lo erano loro ai miei occhi, pur di farlo passare. Pazzesco, si percepisce l’astio, vero? Tutti questi anni a sovvenzionare pieni di carburante per far muovere la trappola per tope del mio analista e ancora quest’incontrollabile invidia maligna nei confronti della gente non accenna ad abbandonarmi.
Del secondo tentativo invece, giusto per poter dire di non essermi arreso alla prima, ricordo solo di avere giurato che sarebbe stato anche l’ultimo. E ho mantenuto la promessa. È per questo che mi piace così tanto vedere quei programmi alla domenica pomeriggio, quella roba ultra deprimente da giornate piovose e riscaldamento a manetta dove gli ospiti sono solo gente giovane che racconta dei propri viaggi in giro per il mondo: perché non c’è niente di meglio per rafforzare la propria autostima che farsi del sangue marcio guardando posti in cui si è certi che non si avrà mai il coraggio di andare. Sempre che uno non se la senta di raggiungere Wellington col pattino, basta avere le gambe buone.
All’elenco delle cose che mi ha rubato mio padre ci metterei senz’altro anche la certezza di non commettere gli stessi suoi sbagli se mai un giorno anche io dovessi diventare genitore.
Non lo so, secondo me certe faccende te le porti dietro anche quando sei convinto di averle ficcate in un sacco di iuta bello pesante, chiuso con lo spago e decorato con eleganti zavorre di piombo, prima di averlo gettato dalla prua di una barca che galleggia sopra qualche chilometrica fossa marina. Ritorni a terra, consegni le chiavi del natante al tizio con la barba che te l’ha noleggiato e mentre fai per andartene, ascoltando il suono dei tuoi passi sul pontile fischiettando con le mani in tasca, questo ti chiama senza nascondere il suo scazzo fuori misura e ti grida: «Hei, mica vorrai lasciarmela qua questa merda?». Così torni indietro, domandi scusa, non sai proprio dove hai lasciato la testa quella mattina e ringraziando per la professionalità ti carichi di nuovo sulle spalle quel fardello pesante come il nucleo di Ganimede, dirigendoti di nuovo verso casa e domandandoti se il tuo comune di residenza accetterà il fagotto come semplice rifiuto indifferenziato o ti toccherà prenotare un ritiro a pagamento.
Come contropartita, però, mio padre mi ha lasciato la propensione a riflettere. Ad essere sinceri (e lo so che ora penserete che vedo il male da tutte le parti) secondo me più che di un lascito volontario si è trattato di uno smarrimento inconsapevole. Tipo come quando scappi con le tasche piene di gioielli che ti sei appena fottuto dal cassetto in camera da letto dello sprovveduto anziano di turno, sprovveduto come probabilmente un giorno diventerai anche tu, e nella fuga rocambolesca ti cade per terra una collana di perle come in una vignetta che abbia per protagonisti la Banda Bassotti. Ecco, più o meno la vedo così la cosa.
Aprire bocca a casa mia era sempre una decisione da prendere con una certa oculatezza: parlare solo se si era sicuri di quello che si voleva dire e mettere comunque in conto che poteva non essere quello che lui avrebbe voluto sentirsi dire. Nel qual caso, la reazione non si sarebbe fatta attendere. Ma uno deve anche correrlo qualche rischio nella vita, altrimenti cosa ti alzi a fare la mattina?
Così, col tempo, mi ritrovavo sempre di più a riflettere su tutte le parole che mi passavano per la testa; mettevo loro un paracadute che ne rallentasse la discesa quando planavano in direzione della lingua, e nel frattempo ne osservavo le forme ed i colori, per valutare se si trattasse di soldati alleati a cui fare segno di scendere o se fossero invece nemici da falcidiare con una raffica di artiglieria contraerea. L’unico problema consisteva nel fatto che una volta scelto il vocabolo che meglio aderisse al concetto che volevo esprimere, solitamente il discorso di base era già terminato da un pezzo, per cui il più delle volte mi ritrovavo a parlare da solo, e finivo sempre per darmi torto.
La cosa buffa in tutto questo è che la frase preferita di mio padre era «Il troppo pensare dal poco sapere». Non perdeva mai l’occasione per sventolarmela davanti, tanto meglio se in presenza di qualcun altro. A questo modo si era semplificato non poco la vita: o aprivo bocca e probabilmente avrai sparato delle cazzate, o la tenevo chiusa e sicuramente voleva dire che ero un coglione. A poco servivano gli sguardi di disapprovazione di chi gli stava intorno, che persino un bambino riusciva ad interpretare ma non lui.
Alla fine, se proprio mi costringessero a partecipare al gioco di società “Trova un pensiero buono su tuo padre”, la cosa più vicina che potrei tirare fuori per vincere almeno il premio di consolazione e non alzarmi dal divano a mani vuote è che riesco a percepire quanto debba essersi sentito impotente nel non avere mai saputo trovare il modo di godersi le cose che aveva.
Se è vero che le colpe dei padri ricadono sui figli, mi viene da pensare che dal suo debba avere ereditato un fardello mica da ridere, e che non sia stato in grado di distribuire bene il peso sulle spalle.
Di mio, il fatto che se anche fosse vissuto abbastanza a lungo non credo sarei comunque riuscito a farci pace è la cosa che mi fa incazzare maggiormente, ma devo ancora capire esattamente con chi.
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Hai trattato un tema tutt’altro che banale – e tutt’altro che facile – con una bella dose di ironia. Che attenzione, non sminuisce affatto, anzi, aiuta a rendere questo monologo interiore più “vero”.
Grazie Sergio, mi fa piacere che tu sia passato di qua.
Argomento difficile che affronti in maniera esemplare ed efficace. Questo personaggio sarà seriale? E’ una ferita mica da poco per non usarla.
Accidenti che bel commento Rocco, grazie! Sai che non ci avevo mai pensato a questa eventualità? Però potrebbe essere un’idea…
Il rapporto tra padre e figlio è per natura complicato.
è troppo difficile fare delle considerazioni su questa vicenda. Posso solo dire che l’ho percepita profondamente e che il tono e le parole con cui l’hai narrata hanno suscitato in me sentimenti a cui non so dare un nome.
Grazie Francesca, è la prova che quando pianti un seme nasce sempre qualcosa.
“il fatto che se anche fosse vissuto abbastanza a lungo non credo sarei comunque riuscito a farci pace è la cosa che mi fa incazzare maggiormente, ma devo ancora capire esattamente con chi.”
Forse, più che con tuo padre, sei arrabbiato con quella parte di te stesso plasmata dall’autoritarismo di tuo padre che ti impedisce di godere pienamente della tua vita. A volte scrivere è un modo per dialogare con noi stessi e mettere insieme i pezzi della nostra esistenza per dargli una forma più definita. Molto bella questa pagina di introspezione personale. Chissà che, scrivendone altre, tu non riesca finalmente a far pace con il tuo “giudice interiore”.
Questa figura del giudice interiore è una roba che mi porto appresso come una scimmia sulla schiena da sempre. Sono rimasto colpito dalle tue parole, perché tolta qualche virgola qui e qualche punto là sono le stesse che mi ha scritto qualche tempo fa una persona con la quale ho seguito un corso di scrittura, tanto che potrei essere tentato di pensare che sia proprio tu quella persona.
Lei diceva che in ogni mio scritto, anche quelli che non riguardavano direttamente me o che in superficie non mi toccavano, ci leggeva sempre (per parafrasare) uno che fa il culo a sé stesso. E andando a rileggermi, cercando di mettermi nei panni di un osservatore esterno, il più delle volte non potevo che darle ragione.
Diceva anche che avrei dato il meglio di me quando fossi riuscito ad uscire da questo vortice.
In effetti venirne fuori non è semplice, a volte mi sembra di avercela fatta, di essere in acqua calme e poi tutt’a un tratto mi sento risucchiare indietro.
Va beh, io continuo a nuotare controcorrente, se non altro mi aiuta a rimanere in forma.
Grazie per il tuo commento.
L’ironia è una gran bella virtù, sia che la si usi come antidoto che come arma. Nel finale sottolinei un mistero tipico della consanguineità: chissà perché si resta con certi dubbi anche dopo un lungo elenco di cose solo negative; chissà perché riusciamo a cancellare conoscenti che non ci hanno fatto nulla e non familiari che ci hanno fatto del male.
boh, forse perche a volte la comprensione ha effetti curativi, al di là della giustificazione.
Ci vuole una buona dose di coraggio per scrivere quello che hai scritto. E poi l’hai scritto bene. Come il racconto precedente, mi piace questa cosa che hai di prendere le ferite e raddrizzarle in sorrisi.
❤️
Ciao Roberto, bellissimo questo racconto, molto coinvolgente. Una storia che sembra autentica, eppure la racconti con grande umorismo e distacco, come se tutto quanto fosse ormai risolto o in gran parte accettato o anche, come dicono alcuni addetti ai lavori, integrato.
Un certo J. C. Badard, psicobiologo francese, che ho frequentato per tre anni, durante un corso di formazione sulla sua materia, sosteneva che gli scrittori sono tutti dei “rigettati” dalla famiglia. Inizialmente non capivo bene, poi non sapevo se credergli, oppure no. Oggi comincio a rendermi conto e mi dico che forse anch’io sono sulla buona strada per aspirare a diventare una vera scrittrice, se quelli sono davvero i presupposti. Potendo tornare indietro e avendo la possibilita` di scegliere tra un buon padre in tutti i sensi o poter realizzare il sogno accarezzato sin da piccola, credo che rinunciare al primo grande pilastro sarebbe impossibile, ma anche dover rinunciare al sogno.
In tutti i casi scrivere e avere la possibilita di condividere e confrontarsi, credo sia il modo migliore per risparmiare i soldi delle sedute di psicoterapia.
Grazie di tutto Maria Luisa, ammetto di non conoscere Badard ma direi che abbia centrato il punto.
Trovare le parole giuste per commentare un episodio di vita personale, tra l’altro negativo, credo sia impossibile. Non perché non ci sia nulla da commentare, ma proprio in virtù del contrario.
Un paio di anni fa vidi un film, intitolato “Lou”, in cui, ad un certo punto, la protagonista, una donna di mezz’età, dice alla ragazza a fianco a lei qualcosa del tipo: “Tutte le cose che abbiamo vissuto resteranno per sempre solo nostre e nessuno potrà mai capirle”.
Beh, credo che non ci sia un modo migliore per riassumere questo racconto di vita reale e vissuta.
Per cui, posso solo fare un inchino e un applauso. Per poi uscire in punta di piedi.
Grazie Giuseppe, ma non andartene in punta di piedi, resta e fai più rumore possibile!
Credo che il percorso o forse il cammino che hai intrapreso, stia volgendo al tuo ‘dentro’, dove ci sono le cose migliori. Non più o meno belle o piacevoli, quanto piuttosto quelle da cui si parte per costruire. Le parole ci aiutano tanto, soprattutto quando il peso è così grande che sulle spalle non ci sta più e quel sacco prima o poi bisogna svuotarlo e tramutarlo in qualcosa, raccontarlo. La pace, quella invece è un’altra cosa. Un concetto, un bene che forse non ci appartiene. Venendo nello specifico al racconto, mi specchio nei tuoi ricordi e li digerisco, con grande fatica, mentre li confronto con la mia storia. A me dico, forza, che magari ce la fai a tirare fuori anche tu. A te dico, coraggio che è la strada giusta. L’ultima nota sul tuo stile che migliora e stupisce. Si pulisce da tutto e ci rende l’essenziale necessario. Bravissimo
Un inchino sorridente alle tue parole prima di proseguire con la mia giornata.
“mettevo loro un paracadute che ne rallentasse la discesa quando planavano in direzione della lingua,”
Bravissimo
La tua capacità di descrizione è un’arma formidabile e ce lo hai dimostrato proprio qui. Perché eravamo abituati a racconti benevoli, magari densi di nostalgia ma sostanzialmente capaci di perdonare. Oggi ci hai mostrato un’altro lato, quello affiliato come un pugnale, e ne hai usato la sola punta per incidere un epitaffio su un ricordo che ti pesa troppo.
Ho passato un’ora ad interrogarmi su come mi sto comportando con mio figlio.
Grazie Giancarlo, l’ultima riga che hai scritto è una delle cose più belle che abbia letto ultimamente.
Roberto, le tue parole hanno delle unghie affilatissime! Manco le cicatrici che mi lascia la micia sul collo quando perde l’equilibrio… Bellissimo questo ricordo celebrativo di un odio leggermente ammorbidito dall’umidità e dalla cabine pressurizzate di un preoccupante aereo… Scrittura fantastica!
Grazie Emiliano, davvero felice che ti sia piaciuto. Per altro, sono anche felice di scoprire di non essere l’unico ad annoverare tutta una serie di graffi sul collo che i miei colleghi non-felidi non riusciranno mai a capire 🙂
Ironico, graffiante ma tristemente amaro questo ricordo di un padre incompiuto. Però “Tutti questi anni a sovvenzionare pieni di carburante per far muovere la trappola per tope del mio analista” mi ha fatto ridere: in una frase hai sintetizzato anni di terapia spesi per niente. Grande Roberto!
😂Grazie Giuseppe, sì, quella parte ha fatto ridere anche me quando la scrivevo.